Contro il golpe Oltre 90 morti, in Birmania è il giorno della vergogna

SDA

27.3.2021 - 18:47

Oltre 90 persone sono stati uccise oggi in almeno 14 città della Birmania, portando il bilancio della repressione armata a oltre 400 vittime
Oltre 90 persone sono stati uccise oggi in almeno 14 città della Birmania, portando il bilancio della repressione armata a oltre 400 vittime
Keystone

È stato «il giorno della vergogna», il più sanguinoso dall'inizio delle proteste contro il golpe: oltre 90 persone sono stati uccise oggi in almeno 14 città della Birmania, portando il bilancio della repressione armata a oltre 400 vittime.

Keystone-SDA

Un massacro arrivato poche ore dopo le minacce della tv statale contro chiunque manifestasse, mentre nella capitale Naypyidaw un esercito sempre più isolato a livello internazionale inscenava un'imponente parata annuale che, in un Paese ormai in fiamme, è il simbolo dell'universo alternativo in cui si muovono i generali.

Come in altre giornate di sangue, la maggior parte delle vittime di oggi si contano a Mandalay (29 morti) e nell'ex capitale Yangon (24), dove migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade in diverse aree cittadine. I proiettili dell'esercito hanno ucciso anche un bambino di 5 anni a Mandalay e una 13enne nella non lontana città di Meikhtila, mentre un bambino di un anno è stato ferito a un occhio da un proiettile di gomma.

Morti in almeno 14 città

Il fatto che si contino morti in almeno 14 città, a cui si sommano precedenti vittime in ulteriori località, dà l'idea di quanto sia diffusa l'opposizione popolare al colpo di stato, anche dopo un messaggio diffuso ieri dalla tv statale che minacciava i manifestanti di essere colpiti da proiettili «alla testa o alla schiena», intimando loro di «imparare la lezione da chi è morto brutalmente» e «non morire per niente».

La repressione armata di oggi è avvenuta nella festa nazionale della Giornata delle forze armate, ribattezzata dai manifestanti 'Giornata contro la dittatura militare'. In una ricorrenza che ricorda l'inizio della resistenza agli invasori giapponesi nel 1945 (capeggiata dal padre di Aung San Suu Kyi), l'esercito che celebra quella data è ora visto dalla popolazione come l'illegittimo occupante.

Ciò non ha impedito al generale golpista Min Aung Hlaing di tenere un discorso di 30 minuti alle truppe, rinnovando l'impegno a tornare al voto dopo un anno ma anche definendo inaccettabili «atti di terrorismo che possono essere nocivi alla tranquillità e sicurezza dello Stato».

Alla parata militare a Naypyidaw c'erano pochissime delegazioni straniere. Spiccava la presenza di quella cinese e di quella russa, capeggiata dal viceministro della Difesa Alexander Fomin. Le cancellerie occidentali hanno però declinato l'invito, condannando le uccisioni di oggi senza mezzi termini. L'ambasciata dell'Unione europea ha parlato di «giorno di terrore e disonore», definendo «atti indifendibili» le uccisioni di civili inermi.

Un compromesso appare sempre più difficile

Su Twitter, l'ambasciatore statunitense ha condannato «l'orribile» massacro, rimarcando come le forze di sicurezza stiano uccidendo «le stesse persone che hanno giurato di proteggere». E un leader dell'opposizione anti-giunta formata da legislatori deposti, il dottor Sasa, ha deplorato quello di oggi come «un giorno di vergogna per le forze armate».

In tale clima, trovare un compromesso appare sempre più difficile. L'esercito e i suoi oppositori parlano linguaggi non comunicanti, definendo la parte opposta «terroristi».

L'impegno dei militari di tornare a elezioni al termine dello stato di emergenza di un anno appare sempre più una chimera, data la determinazione a difendere con la forza una presa del potere che ha stroncato un decennio di nascente democrazia, per non parlare delle accuse multiple contro l'ex leader del governo Aung San Suu Kyi.

Fiaccata da intimidazioni giudiziarie e arresti, la stampa indipendente non esiste più: l'ultimo quotidiano privato ha chiuso pochi giorni fa. Con scioperi generali ancora attivi e l'economia nazionale in caduta libera, il generale Min Aung Hlaing si è mostrato finora immune alle pressioni internazionali, arroccandosi attorno al sostegno cinese e russo. Tutto fa pensare che ai morti di oggi ne seguiranno molti altri.