"Un genio". No, "un fifone", "un rammollito senza coraggio".
Il giorno dopo la fine dello shutdown più lungo della storia Usa, la destra americana e lo zoccolo duro dell'elettorato di Donald Trump si dividono sul presidente, reduce da quella che appare come la sconfitta politica più bruciante da quando si è insediato alla Casa Bianca.
L'aver ceduto a un compromesso che riapre il governo federale senza che nessuna delle sue istanze venisse accolta viene vista dai più come una schiacciante vittoria dei democratici e della speaker della Camera Nancy Pelosi.
Ma sopratutto come un brutto colpo a quell'immagine di maestro nell'arte di fare accordi e di mago degli affari su cui Trump ha costruito la sua reputazione di 'duro' e di vincente.
Ma lui, nonostante nelle ultime ore la frustrazione gli si legga sul volto, nega di aver capitolato, di essersi arreso. E, 24 ore dopo quello che qualcuno ha definito "il giorno più orribile" dei suoi due anni di presidenza (visto anche l'arresto del fedelissimo Roger Stone), rilancia su Twitter: "Non ho fatto alcuna concessione, sono solo venuto incontro a milioni di persone colpite dallo shutdown".
E in effetti a convincerlo alla retromarcia sarebbero state sia le ultime telefonate col leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell, alle prese con una mezza rivolta della base dei repubblicani, sia le immagini tv con i disagi crescenti soprattutto negli aeroporti, senza contare i segnali di insofferenza da parte dei dipendi del fisco che si sono rifiutati di tornare al lavoro senza paga.
Insomma, così non si poteva andare avanti. Ora Trump cerca però di recuperare, e ricorda come ci siano 21 giorni, fino al 15 febbraio, per raggiungere un'intesa complessiva e definitiva sulla sicurezza del confine col Messico, compresa l'imprescindibile costruzione del muro. Pena una nuova paralisi. Oppure, come è tornato a minacciare, la proclamazione di un'emergenza nazionale, anche a costo di provocare uno scontro e un caos istituzionale e costituzionale senza precedenti.
Insomma, si prospettano tre settimane di fuoco in cui il presidente dovrà dimostrare, soprattutto alla sua base, che perdere una battaglia non vuol dire perdere la guerra. E il muro, continua ad assicurare, si farà. Anche perché si dice certo che una nuova carovana con altre 8mila presone si è già formata in centro America ed è pronta a marciare verso gli Usa.
Intanto il giorno dopo il clamoroso arresto di Stone il New York Times ricostruisce tutti i legami tra l'inner circle di Trump e i russi dall'inizio del 2016 all'inizio del 2017, sulla base delle carte delle indagini del procuratore speciale Robert Mueller.
E si scopre che durante la campagna elettorale e il periodo di transizione, fino all'insediamento alla Casa Bianca nel gennaio di due anni fa, Donald Trump e almeno 17 tra suoi consiglieri e collaboratori ebbero contatti con intermediari di Mosca e di Wikileaks.
Fino all'Inauguration Day, si parla di oltre 100 contatti, tra meeting, sms, email, messaggi personali su Twitter. Ad essere coinvolti non solo i sei già messi in stato d'accusa da Mueller nell'ambito del Russiagate ma anche il primogenito e il genero del tycoon, Donald Trump Junior e Jared Kushner.
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