Santa Sofia tornerà a essere una moschea. Dopo 85 anni, Recep Tayyip Erdogan realizza così il sogno dell'islam politico in Turchia.
Il Consiglio di Stato ha votato all'unanimità l'annullamento del decreto di Mustafa Kemal Ataturk che aveva trasformato in museo il monumento, dopo quasi 1.500 anni trascorsi come luogo di culto cristiano e poi musulmano.
Una decisione storica che il presidente ha subito tradotto in legge, firmando il decreto che trasferisce l'amministrazione dell'edificio dal ministero del Turismo alla Diyanet, l'autorità statale per gli affari religiosi, che amministra le 80 mila moschee turche. E da oggi una in più.
Dalla preghiera del venerdì del 24 luglio, ha annunciato il leader di Ankara in un discorso serale alla nazione, tornerà un luogo di culto islamico.
Un passo simbolico anche per Erdogan
Per Erdogan, spesso accusato di minare la laicità delle istituzioni di Ankara, è il passo simbolicamente più importante dopo oltre 17 anni al potere, che gli permette di ricompattare la sua base politica in un momento di difficoltà, tra crisi economica ed emergenza coronavirus.
Una mossa che lo riafferma anche come leader nel mondo islamico, ma che rischia di costargli caro nei rapporti con il resto della comunità internazionale.
Proteste e indignazione
La decisione ha subito scatenato proteste e indignazione. Per la Grecia, si tratta di una «aperta provocazione al mondo civilizzato». Secondo la ministra della Cultura, Lina Mendoni, «il nazionalismo mostrato da Erdogan riporta il suo Paese indietro di sei secoli». Immediata è giunta anche la reazione della Chiesa ortodossa russa, che parla di una decisione che ignora «milioni di cristiani».
Già alla vigilia, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, primus inter partes tra le guide spirituali dei 300 milioni di fedeli ortodossi, aveva lanciato l'allarme sui rischi di una reazione «dei cristiani nel mondo contro l'Islam».
Da Washington a Mosca, da Bruxelles ad Atene, in tanti avevano tentato di fermare lo strappo. Invano. Il leader di Ankara ha invocato la «sovranità nazionale» sulla decisione, assicurando però che «le porte continueranno a essere aperte a tutti, turchi e stranieri, musulmani e non musulmani».
Inascoltati sono rimasti anche gli appelli al dialogo dell'Unesco, che ora si dice «profondamente dispiaciuto» e ha espresso la sua «preoccupazione» all'ambasciatore turco presso l'organismo, chiedendo un confronto per evitare il rischio di rimozione del monumento dalla lista del Patrimonio mondiale dell'umanità.
Festeggiamenti di gruppi islamisti e nazionalisti
Per quasi un millennio la chiesa più grande della cristianità, a lungo sede del patriarcato di Costantinopoli, trasformata in moschea dal sultano Maometto II nel 1453 dopo la conquista ottomana, Santa Sofia torna ora luogo di preghiera per i musulmani.
I giudici della decima sezione del Consiglio di stato hanno accolto il ricorso presentato nel 2016 da un piccolo gruppo islamista locale, l'Associazione per la protezione dei monumenti storici e dell'ambiente. Secondo le motivazioni del massimo tribunale amministrativo, l'edificio appartiene a una fondazione che l'avrebbe eredito da Maometto II e sarebbe quindi illegittimo destinarlo ad un uso diverso da quello previsto dal sultano.
Immediati sono stati i festeggiamenti di gruppi islamisti e nazionalisti, oltre che di ministri e deputati. Poco prima della decisione, il monumento era stato appositamente transennato per evitare assembramenti a ridosso dell'edificio. Sventolando bandiere turche, i manifestanti si sono comunque riuniti nella piazza antistante di Sultanahmet. «Rompiamo le catene di Santa Sofia», era stato per anni il loro slogan. Da oggi, quelle «catene» non ci sono più.
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