Razzismo«Mia madre mi diceva che, con le mie origini, dovevo superare doppiamente le mie prove»
Di Silvia Binggeli
19.6.2020
Si potrebbe giocare a trampolino sui suoi «riccioli»: a frasi come questa, Silvia Binggeli è da sempre tristemente abituata. In questo editoriale, l’ex redattrice capo di «Annabelle» scrive di razzismo nella vita quotidiana, in Svizzera e negli Stati Uniti.
«Da dove vieni? Non sei di qui, vero?»
Da che mi ricordo, mi è stata sempre posta questa domanda. Mio padre veniva dall’Africa occidentale. Mia madre è di Berna. Ho la pelle scura e i «boccoli». Molte persone toccano i miei capelli senza che li autorizzi a farlo e mi dicono: «È strano, si potrebbe giocare a trampolino qui.» O mi chiedono: «Anche tu hai preso un colpo di sole?»
E in effetti, mi ricordo una frase che mia madre mi ha detto quando avevo dodici anni. Dovevo andare al liceo inferiore («Untergymnasium», ndlr), cosa di cui non avevo assolutamente voglia. Per convincermi, lei ha utilizzato un argomento che all’epoca mi ha fatta arrabbiare e mi ha ferita. Ha detto: «Con le tue origini, devi superare doppiamente le tue prove.»
Silvia Binggeli
zVg/Flavio Leone
Silvia Binggeli è stata redattrice capo di «Annabelle» fino all’estate scorsa. Figlia di una bernese e di un guineano, ha in seguito trascorso un periodo sabbatico di alcuni mesi a New York. È tornata a Zurigo da marzo.
Ha ragione: il colore della mia pelle non fa che risvegliare la curiosità degli altri e incitarli a porre domande sulla mia appartenenza. E il colore della pelle si accompagna anche a pregiudizi, insulti e alle svalutazioni: «Testa di negra, ritorna nel tuo cespuglio!», sentivo quando ero bambina. Successivamente, da ragazza, sono stata controllata più spesso alla dogana da quando ho cominciato a intrecciare i capelli. E mi chiedevano: «Trasporta della droga?»
Alcuni uomini mi hanno detto: «Mi piacerebbe fossi la mia ragazza, sei così esotica.» Al che si aggiunge di solito il supposto complimento: «Anche a letto, probabilmente.»
Queste reazioni sono davvero così distanti dal dibattito sul razzismo negli Stati Uniti?
Ho cominciato a interessarmi di storia afroamericana quando sono andata a studiare a San Francisco. Era piacevole scoprire la società culturalmente mista della città statunitense. Tuttavia, dopo alcune conversazioni con amici di colore e letture di libri, ho rapidamente compreso che i neri non godono delle stesse chance in questa società: fino agli anni '60, non erano autorizzati a frequentare le stesse scuole dei bianchi, a sedersi sugli stessi sedili sugli autobus. Il movimento dei diritti civili ha causato la fine della segregazione razziale – ben cento anni dopo l’abolizione della schiavitù!
In seguito, abbiamo celebrato i primi vincitori di colore agli Oscar , l’arrivo del primo presidente afroamericano alla Casa Bianca – e ci siamo chiesti troppo poco perché questo rappresentasse una tale vittoria.
Il razzismo sembra essere un problema marginale per numerosi bianchi. Di recente, un poliziotto bianco ha premuto il suo ginocchio contro il collo di un uomo nero sull’asfalto davanti ai nostri occhi, fino a che lui, George Floyd, è morto. Ciò purtroppo non costituisce un caso isolato. Noi lo nominiamo, siamo scioccati. Ma questo non basta. Dobbiamo guardare, ascoltare, comprendere e cambiare il nostro modo di pensare.
Sono sconvolta
«XIII emendamento», uno straordinario documentario della regista afroamericana Ava DuVernay, mostra in particolare come un razzismo profondamente radicato negli Stati Uniti abbia creato un sistema poliziesco e giudiziario che criminalizza sistematicamente i neri. Durante le discussioni nell’ambito delle manifestazioni in tutto il mondo, apprendiamo che alcuni genitori neri negli Stati Uniti si lasciano andare a quella che viene chiamata «the talk», una conversazione assolutamente naturale che hanno abbastanza presto con i loro figli per dir loro di evitare la polizia, anche se si comportano in maniera inappuntabile.
Sono sconvolta – e non soltanto dall’orribile omicidio di George Floyd. Sono anche colpita dal sistema di valori che ha potuto causare tutto ciò. E anche qui, dobbiamo soffermarci a riflettere su questa questione.
Fiera delle mie origini
Siamo chiari: sono fiera delle mie origini. Incontro innumerevoli persone che rispettano chi sono, che si complimentano per i miei capelli o il colore della mia pelle, semplicemente perché li trovano belli. Le domande poste seriamente per curiosità sulla mia apparenza non mi disturbano affatto, anche se la persona di fronte a me fa una gaffe riprendendo uno stereotipo. Questo succede anche a me con gli altri. Così, apprezzo anche quando mi fanno notare la mia mancanza di tatto senza indirizzarmi dei rimproveri esagerati. Ma allora, quel che mi aspetto da me stessa come dagli altri, è che correggiamo la nostra ristrettezza di visioni.
La curiosità nei confronti degli stranieri non è razzista. Quel che è razzista, è la connotazione peggiorativa che appare automaticamente nell'animo di qualcuno che vede una persona dalla pelle scura. Poco importa che questo giudizio si formuli in maniera incosciente e in silenzio o che sia trasmesso negligentemente, per esempio sotto forma di una parola discriminatoria che riassume secoli di oppressione di un gruppo intero di esseri umani: un tale giudizio è razzista ed erroneo.
Anche qui. Anche da noi. Tutti coloro che preferiscono ancora restare in piedi nel tram piuttosto che sedersi di fianco a un passeggero di colore devono cambiare il loro modo di pensare. Immediatamente!