Digitale & Lifestyle A tavola: mangiare salato fa male (anche) all’intestino

CoverMedia

29.6.2020 - 16:08

Wooden spoons with different sorts of salt

When: 24 May 2017
Credit: Ina Peters/Westend61/Cover Images
Wooden spoons with different sorts of salt When: 24 May 2017 Credit: Ina Peters/Westend61/Cover Images
Source: Ina Peters/Westend61/Cover Image

I ricercatori hanno scoperto un legame diretto tra l’apporto di sodio e la salute del microbiota umano.

Lo sappiamo tutti: mangiare troppo salato fa male. A questa certezza si aggiunge quella dei ricercatori dell’università statunitense Georgia Prevention Institute e del Medical College of Georgia dell’Augusta University, USA, secondo cui il danno riguarda anche il microbiota umano, ovvero l’insieme di batteri (parliamo di miliardi di miliardi!) presenti nel nostro intestino.

Lo studio ha coinvolto 145 individui adulti di un’età compresa tra i 30 e i 75 anni, con una condizione di ipertensione non curata, con un focus sull’impatto della riduzione di sodio fino a quello raccomandato giornalmente, cioè 2.300 milligrammi.

Il team ha scoperto che, in particolare per le donne, un calo del consumo di sale è risultato in un livello più alto di acidi grassi a catena corta, noti per il loro importante ruolo nella regolazione della pressione sanguigna.

«Un legame esiste», ha confermato la dottoressa Haidong Zhu, leader dello studio. «Ora stiamo cercando di comprendere i meccanismi alla base di ciò».

Il microbiota umano ospita batteri, virus e funghi che vivono in armonia nell’apparato gastrointestinale, e svolge funzioni importanti nell’organismo, per esempio supporta il sistema digerente e agevola l’efficacia del sistema immunitario.

Un problema nell’intestino può causare una varietà di problemi di salute, tra cui allergie e tumori.

«Il sodio ha un grave impatto in entrambi i sessi, ma l’impatto nel legame con il microbiota umano sembra maggiore nelle donne», continua la dottoressa. «Abbiamo bisogno di effettuare ulteriori studi per capire se ciò è vero e perché».

La ricerca è stata pubblicata nella rivista scientifica Hypertension.

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