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Suicidio assistito Dottoressa Tanja Krones: «Morire non è necessariamente una cosa orrenda»
Jürg Wiler
28.1.2019
Tanja Krones si occupa spesso delle richieste dei malati terminali. In qualità di medico e amministratore delegato del Comitato etico presso la clinica universitaria di Zurigo, la dottoressa Krones fornisce consulenza a medici, parenti e pazienti in situazioni difficili a livello esistenziale. Tra le altre cose, si occupa di suicidio assistito.
Signora Krones, di cosa si occupa esattamente un comitato etico?
Negli ultimi 15 anni sono sorte strutture specialistiche di questo tipo nella maggior parte delle cliniche universitarie e, sempre più spesso, in piccoli ospedali cantonali e in case di cura in Svizzera. Tali strutture supportano il personale sanitario, i parenti e i pazienti in situazioni problematiche e di contrasto. Suggeriscono la soluzione migliore in presenza di alternative e/o opinioni diverse. L'etica clinica si dipana in tre attività: in primo luogo, nella formazione continua del personale sanitario. In secondo luogo, nella consulenza in situazioni concrete e difficili; attenzione, non nel senso di prendere delle decisioni, bensì nel senso di aiutare a fare delle valutazioni, di dare informazioni e di moderare il processo decisionale. In terzo luogo, nell’elaborazione di linee guida etiche organizzative, anche nel contesto nazionale e internazionale.
Quali sono le domande più ostiche alle quali deve rispondere?
Spesso sorgono problemi legati al concetto di giustizia. Ad esempio, anche se il cittadino dispone di un'assicurazione sanitaria obbligatoria, la stessa presenta grandi lacune assistenziali. Le domande rilevanti in questo senso sono: come trattare i pazienti che non hanno pagato i premi? come sarebbe meglio intervenire in presenza di debiti interni? Ci occupiamo anche di gestire l'offerta in eccesso e quella insufficiente.
Quanti casi vengono trattati dal comitato ogni anno e qual è la tendenza statistica?
La nostra équipe composta da due persone, accanto ai responsabili etici presenti in ogni clinica universitaria, si occupa di circa 1000 casi all'anno. Quando ho iniziato ad operare in questa clinica dieci anni fa, ce n'erano soltanto 15. Da allora, il numero di casi è cresciuto rapidamente.
Cosa succede se il personale sanitario non è unanime? Ad esempio, quando i cardiologi, i chirurghi o il personale infermieristico valutano diversamente la stessa prognosi?
È naturale che delle persone siano in disaccordo su una questione, dato che ognuna di loro può vederla in modo diverso. In molte situazioni in cui sono coinvolte questioni etiche, non esiste la differenza tra "giusto" e "sbagliato". E spesso non c'è solamente un'unica soluzione. L'incertezza fa parte della medicina. Pertanto, è importante che avvenga uno scambio di opinioni: in base a quale esperienza o certezza viene suggerita un'altra soluzione o, comunque, in che modo si è giunti ad avere un’opinione diversa? Spesso basta essere chiari nello scambio di informazioni. In molti casi differenti sistemi di valori conducono a prognosi differenti. Mi spiego: se un medico vuole continuare a lottare per la vita del paziente tenderà a fornire una prognosi migliore, mentre un altro potrebbe sostenere che la qualità della vita del medesimo paziente non è più accettabile. Questo è ciò che va chiarito.
È risaputo che negli ospedali regna una rigida gerarchia. Dopotutto, non è il primario ad avere sempre l'ultima parola?
Questa gerarchia esiste, anche in ambito infermieristico. Naturalmente, essa dipende da come è composto internamente il reparto in questione. Anche in una grande clinica universitaria ci sono culture diverse. Dipende sempre dal primario. Per cui ci sono reparti che lavorano ottimamente in équipe, mentre in altri padroneggiano ancora i classici primari. Questo non sempre è da collegare all’anzianità. Naturalmente, il dirigente di un reparto se ne assume anche la responsabilità, teniamolo presente. Tuttavia, vi sono sempre più équipe sanitarie che operano secondo un alto grado di interprofessionalità. Le due tendenze si sviluppano in parallelo.
La comunicazione è assolutamente essenziale in situazioni difficili. Come percepisce la cultura della comunicazione tra medici e pazienti?
Differente. C'è sicuramente un certo divario a favore dei medici. In realtà, si tratta anche di un problema generazionale. I medici esperti sono spesso eccellenti nella comunicazione. Tuttavia, può accadere anche che persino i primari non siano in grado di comunicare con i pazienti in maniera ottimale. Nel concreto, viene impartita una formazione intensa sul tema della comunicazione più che altro agli studenti di medicina, in particolare su come affrontare le cattive notizie o un processo decisionale congiunto.
La sua istituzione cerca di formare i medici affinché riescano a sostenere una conversazione delicata?
Questo tema viene affrontato in varie facoltà nell'ambito della formazione degli studenti di medicina. L'Università di Basilea, ad esempio, lo fa ad un alto livello. Tuttavia, la formazione e i corsi di aggiornamento rivolti ai medici vertono meno sull’argomento. Presso la clinica universitaria di Zurigo sono in corso, nel centro di simulazione, alcuni progetti pilota in collaborazione con il centro di formazione e vorremmo puntare al vertice internazionale. I progetti sono incentrati sull'apprendimento permanente delle abilità comunicative, che possono essere migliorate esattamente come le abilità manuali in chirurgia. Il principio di base è che ci sono diverse abilità che non si smettono mai di imparare, ad esempio: sostenere conversazioni molto complesse, fornire spiegazioni complesse con il coinvolgimento del paziente, elaborare una pianificazione congiuntamente al paziente stesso, discutere di errori medici che si sono verificati o comunicare cattive notizie.
Se si riesce a comunicare bene, insorgono anche meno problemi, compresi quelli legali. Questa consapevolezza è sempre più evidente. Sarebbe necessario che il governo federale e le assicurazioni sanitarie riprendessero a finanziare la "medicina narrativa" nonché i farmaci costosi.
In che modo i pazienti gravemente malati e i malati terminali vengono informati dell'alternativa del suicidio assistito presso la clinica universitaria?
Raramente i medici approcciano l'argomento di propria iniziativa. Negli ospedali della Svizzera tedesca è consuetudine che, se un paziente richiede in tutta autonomia il suicidio assistito, l’argomento viene affrontato e la richiesta viene accolta. I medici e gli infermieri si preoccupano di capire cosa sia davvero importante per il paziente. Ciò presuppone un rapporto di fiducia preesistente. Un atteggiamento medico appropriato sarebbe quello di dire al paziente: "riesco a comprendere il tuo problema e non ho intenzione di tabuizzarlo; lo valuterò per capire se posso aiutarti a seguire la tua strada". Una cosa importante: possiamo informare il paziente riguardo al suicidio assistito, ma non abbiamo il dovere di farlo. Tutto dipende, dunque, dall'approccio del singolo medico.
A cosa occorre prestare attenzione?
Il lavoro di EXIT in particolar modo ha garantito un buon accesso alle informazioni su tale argomento. Quello che spesso le persone non sanno è che, se vogliono davvero scegliere la strada del suicidio, devono avere capacità di intendere e di volere. Quando i pazienti richiedono il suicidio in virtù di tale capacità, possono diventare irrequieti e voler essere accompagnati il più presto possibile. Il che è toccante e spiacevole allo stesso tempo, e questo lo facciamo presente. Inoltre, è importante non classificare immediatamente le persone che desiderano ricorrere al suicidio assistito come persone con tendenze suicide, facendone una questione di "pertinenza psichiatrica". D'altra parte, in alcuni casi e quando necessario, è appropriato ricorrere all'assistenza psichiatrica del paziente. Occorre esaminare attentamente il singolo caso.
Come la maggior parte degli ospedali svizzeri, la clinica universitaria di Zurigo non ammette il suicidio assistito intramoenia. Perché?
La ragione principale è legata alle esigenze dei medici. Per molti di loro è difficile, a livello personale, portare avanti operazioni salvavita e di suicidio assistito parallelamente. Sebbene possano probabilmente comprendere il desiderio individuale di suicidio assistito. L'organizzazione protegge il personale sanitario da un eventuale conflitto di ruolo. Inoltre, se i pazienti vivono in istituti di cura che già prevedono l'accompagnamento al suicidio assistito, tali istituti rappresentano la loro vita privata e la loro casa. Questo discorso non vale se si tratta di un ospedale. Fondamentalmente, ci viene chiesto di non fare dell'argomento un tabù. Nel campo dell'assistenza sociale, si tratta di mettere in discussione il fatto che il paziente abbia preso la decisione nel modo più ottimale possibile e quale alternativa ci potrebbe essere. Tuttavia, la situazione si complica se il paziente in questione non può più essere trasferito. A questo punto, non può essere escluso un riesame del caso specifico.
Come trattate i pazienti della clinica che vogliono rinunciare a vivere ricorrendo al suicidio assistito?
Se una persona ha ben ponderato tale decisione, non ne impediremo l'attuazione. In ogni caso, EXIT può anche visitare i pazienti e pianificare con loro l'accompagnamento. I pazienti possono anche essere dimessi direttamente a casa o in una camera mortuaria. Consegniamo la lettera di dimissione e, se lo si desidera, prepariamo il paziente con un accesso venoso esistente. Il certificato medico attestante la capacità di intendere e di volere del paziente che ricorre al suicidio assistito non è emesso intrinsecamente: dipende dal singolo medico. È interessante notare che, sebbene il suicidio assistito sia spesso oggetto di discussione, concretamente da noi i conflitti in materia sono piuttosto rari. In effetti, l'etica clinica se ne occupa tre o quattro volte all'anno, per un totale di circa 1.000 casi.
«Se una persona valuta la propria decisione in maniera attenta, l'accompagnamento al suicidio assistito è del tutto comprensibile»
Qual è la sua opinione personale sul suicidio assistito?
Il fatto che le persone desiderino il suicidio è una cosa che riguarda l'umanità da tempo immemorabile. Da un punto di vista filosofico-etico, di per sé questo non è condannabile. Ognuno di noi dovrebbe essere in grado di definire da sé il senso di una morte dignitosa. Se una persona valuta la propria decisione in maniera attenta e ponderata, per me l'accompagnamento al suicidio assistito è del tutto comprensibile. La cosa importante da considerare è che un tale passo richiede estrema cura. Occorre quindi valutare il singolo caso molto attentamente. EXIT ha il dovere di mantenere il livello di qualità esistente e promuoverne il miglioramento.
Tra le altre cose, i testamenti biologici sono importanti nel suo lavoro quotidiano. Qual è il momento in cui si rivelano più utili?
I testamenti biologici sono utili se riflettono il più possibile i valori personali del paziente e se vengono discussi con il medico o un operatore sanitario. Significativa è, in questo senso, una pianificazione sanitaria di accompagnamento professionale, conosciuta in inglese come "Advance Care Planning". Trovo che sia ragionevole anche sostenere un colloquio con i parenti per capire quali siano le loro speranze, le loro paure o i loro desideri.
Cosa, secondo lei, andrebbe evitato?
Il paziente non dovrebbe scrivere da sé il proprio testamento biologico. Nel compilare la dichiarazione di valori personali, i pazienti scrivono, ad esempio: mi piace fare escursioni in montagna e i miei nipotini sono importanti per me; tali informazioni non sarebbero comunque utili per noi in una situazione di emergenza nell'unità di terapia intensiva. Piuttosto, la conclusione che ne traiamo è: il paziente non può più scalare le montagne, ma può ancora salire le scale. Vuole davvero morire adesso? I medici che attuano un testamento biologico devono capire qual è l'obiettivo terapeutico. Ciò che hanno bisogno di sapere è cosa va evitato. A tale scopo, devono fare domande mirate al paziente affiancati da uno specialista, ad esempio: cosa è importante per te in un trattamento di emergenza? Qual è il tuo limite? Cosa dobbiamo assolutamente evitare?
I suoi compiti professionali legati a questioni come la morte e il decesso non sono per nulla semplici. Quanto le risultano onerosi da gestire?
Intendiamoci: morire non è necessariamente una cosa orrenda; può anche essere bello. È bello se i membri della famiglia riescono a trovare la pace. Recentemente, ci siamo presi cura di una paziente con molti anni di sofferenza alle spalle e anche della sua famiglia, che era stata in conflitto per tutta la vita. Nonostante questa lotta interna, per loro era arrivato il momento dell'addio. Qualsiasi morte dovrebbe rendere giustizia non solo alla persona interessata, ma anche a coloro che restano in vita e che continuano ad amarla. Morire è bello se poi si riesce a dire a se stessi: ho trovato la pace, era logico che andasse così, posso accettare la morte e continuare a vivere. Ciò, per quanto possibile, apre le porte al lavoro di comunicazione e biografia. Inoltre, un improvviso arresto cardiaco è una morte pacifica quando si ha la consapevolezza che la morte stessa ha raggiunto la persona che desiderava morire. La morte può essere vissuta in modo più sereno ad esempio tenendo semplicemente la mano del defunto, in buona coscienza.
Questa intervista è apparsa per la prima volta sulla rivista dell'organizzazione di accompagnamento alla morte Exit.
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