Intervista all'attore Carlos Leal: «Bisogna essere mezzi matti per fare questo mestiere»

di Marjorie Kublun

11.9.2019

Carlos Leal sul set della serie «The L Word: Generation Q»
Carlos Leal sul set della serie «The L Word: Generation Q»
Calros Leal

Carlos Leal ha ottenuto una parte in «The L Word: Generation Q», serie LGTBQ di successo, e ora si ritrova a fianco della persona per la quale stravedeva una trentina di anni fa: Jennifer Beals. L'attore losannese che vive a Los Angeles non è proprio fan di Hollywood. Ci racconta però ciò che lo convince a rimanerci da quasi 10 anni.

È quasi mezzanotte a Los Angeles ma è un Carlos Leal decisamente sveglio e di buon umore che risponde alle nostre domande.

Complimenti per la parte che ha ottenuto in «The L Word: Generation Q». Come ci è riuscito?

In effetti non ho fatto alcun casting per questo ruolo. Il mio agente ha inviato un videobook, quello che si chiama un «reel», per far vedere il mio lavoro e si sono mostrati direttamente interessati. Hanno proposto di scritturarmi senza dover passare per un casting. È piuttosto buffo perché avevo appena superato dei casting per altri progetti. Il mio agente mi ha annunciato che ero stato preso per qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare, «The L Word». (ride) Normalmente il casting è d'obbligo, a volte anche più d'uno. Ci vuole dunque parecchio lavoro per raggiungere l'obiettivo. In questo caso, non è stato necessario.

Avere delle origini spagnole è stato un vantaggio per questo ruolo?

Certamente. In generale, ho partecipato a molti più casting e ho ottenuto molte più parti per ruoli «latini» sul mercato americano rispetto a quello francofono. Mi sono capitati dei ruoli francofoni ma direi che nel 70 per cento dei casi si è trattato di ruoli «latini». 

Forse può rappresentare un vantaggio avere un accento francese?

A volte lo è in effetti. Oggi Hollywood è molto aperta ai ruoli per stranieri. C'è un po' di tutto. Io lavoro con diversi accenti. Ho avuto la possibilità di recitare ruoli di italiani, perfino di tedeschi che parlano inglese.

Dev'essere complicato...

Si deve faticare! Ma lavorando si arriva facilmente a dei risultati su questi accenti differenti. Da quando sono qui, ho potuto lavorare su questa «cassetta degli attrezzi» rappresentata dagli accenti. Le occasioni in cui mi verrà chiesto di recitare un personaggio americano saranno rare. Per cui punto su altre possibilità.

«Jennifer Beals non sa ancora nulla di questa storia.»

Possiamo complimentarci con lei anche per il fatto di essere uno dei rari svizzeri ad essere riuscito a farsi strada a Hollywood e a poter vivere grazie al mestiere di attore. A cosa è dovuto?

Gli svizzeri tedeschi sono forse più attirati da Berlino, alcuni da Hollywood, mentre gli svizzero romandi sono più attirati da Parigi. La capitale francese è stata d'altra parte la mia prima destinazione quando ho cominciato la carriera di attore. Ma è vero che Parigi in fin dei conti non mi ha mai aperto del tutto le sue porte, anche se me la sono cavata anche lì. Quindi sono partito per la Spagna, dove le cose sono andate molto meglio, prima di arrivare qui a L.A., dove c'è stato un ulteriore miglioramento. Sono una persona molto ambiziosa, per cui il solo fatto di «sfondare» rappresenta qualcosa di più importante ai miei occhi. Ma è vero che mi guadagno bene da vivere. Da quando sono a Los Angeles ho avuto la fortuna di aver inanellato i progetti.

Lei è più perseverante di altri attori che arrivano a Hollywood?

Immagino che sia anche dovuto alla perseveranza ma non sono arrivato a mani vuote. Avevo già lavorato parecchio in Svizzera, in Germania, in Francia e in Spagna. Credo che queste esperienze abbiano accresciuto la mia autostima e le mie capacità. E questo tranquillizza anche le persone con cui lavoro qui, perché Hollywood ha un certo rispetto per il cineam europeo.

Molti attori arrivano a Hollywood un po' a mani vuote. Non hanno un bagaglio professionale molto ampio e spesso hanno poca esperienza. Tutte queste persone, inoltre, non è detto che riescano a trovare subito le persone giuste per rappresentarle. Nel mio caso, invece, ho trovato subito un ottimo manager. Per avanzare occorrono dunque numerosi fattori: la fortuna, la perseveranza e anche il talento (ride). Il mondo della notte attira parecchie persone che sperano di incontrare produttori, direttori di casting. In questo senso, forse farò crollare un mito, ma le possibilità di incontrare qualcuno che vi dia una parte nel suo film, sono pari al due per cento.

E come si fa per avere successo nei casting?

Credo che occorra avere molta autostima quando si partecipa ai casting qui e proporre cose che chi li dirige non è abituato a vedere. Un profilo atipico li interesserà. Parlo cinque lingue, faccio del rap: è inusuale a Hollywood. All'inizio, mi tremavano le gambe durante i casting, ora va un po' meglio (ride). Mi permetto delle libertà e posso correre dei rischi, a volte anche grandi. L'importante è che non ti dimentichino.

Ad esempio?

Ad esempio, modifico la percezione del personaggio. A volte non funziona ma a volte le persone rimangono sorprese. E se non sono l'attore adatto per quel ruolo, ciò che conta è farsi notare, affinché si ricordino di te. I responsabili dei casting saranno contenti di richiamare l'attore che li aveva sorpresi positivamente.

Troverà Jennifer Beals, il suo idolo e la persona che ammirava quando era molto giovane. Dev'essere strano...

In Europa la gente forse non sa ciò che lei ha fatto dopo «Flashdance». In realtà, ha avuto ruoli in numerose serie, in particolare nella prima stagione di «The L Word». È davvero un'attrice straordinaria. Ed è vero che nella mia storia personale è una sorta di boomerang, un detonatore perché «Flashdance» è un film che ha davvero acceso in me il desiderio di interessarmi alla cultura hip hop quando ero molto giovane e non sapevo ancora che l'hip hop sarebbe diventato una parte importante della mia vita. Ho cominciato a fare della breakdance prima di passare al rap qualche anno più tardi e di creare Sens Unik. Poi è nato il desiderio di diventare attore. E dopo tutta questa concatenazione di eventi mi ritrovo qui oggi. L'altro giorno mi trovavo con Jennifer Beals mentre leggevamo dei copioni e mi dicevo: «Certo è incredibile. Una trentina di anni fa ero praticamente innamorato di questa attrice». (ride)

Ha raccontanto a Jennifer Beals che è grazie alla scena di breakdance in «Flashdance» se ha cominciato a dedicarsi al rap?

Jennifer Beals non lo sa ancora ma glielo racconterò presto.

Come la trova ora che la conosce?

È fantastica, è un'attrice piena di talento, sempre così bella. Non reciterò in scene in cui siamo insieme, ma sul set ci capita di incrociarci.

«Il rap è uno strumento utile per sciogliere la lingua.»

A che punto siete con le riprese?

Cominciamo l'episodio 3 tra qualche giorno.

Perché è stato tentato da un ruolo in una serie «queer»?

Lavorare in un progetto come questo penso che sia senza dubbio importante nel 2019: è essenziale avere una serie come «The L Word».

È in ogni caso un mondo nuovo nel quale è entrato?

Assolutamente. Già a partire dall'esperienza sul set, visto che l'80 per cento delle persone che vi lavorano è rappresentato da donne. Tutti i registi sono donne, così come tutti i direttori della fotografia, il che è piuttosto raro. E hanno tutte molto talento. È bellissimo e speciale trovarsi con così tante donne sul set, ed è anche molto piacevole. Garantisce un'atmosfera e una sensibilità diverse.

Ha imparato nuove cose che non sapeva sulla comunità LGBTQIA (lesbiche, gay, transgender, queer, intersessuali o assessuali)?

No, in realtà. Però ho imparato nuove espressioni leggendo il copione. Espressioni che non avevo mai sentito prima e per le quali non esistono definizioni in un vocabolario tradizionale: ci vuole un dizionario urbano. Ed è una cosa divertente.

Può dirci di più sul ruolo di Rodolfo nella serie?

È un uomo latino di una cinquantina d'anni, amministratore delegato di un grande gruppo farmaceutico, dunque una persona con molto potere. Ha un'unica figlia alla quale vuole molto bene, che sostiene e protegge. Questa figlia, che è uno dei personaggi principali della serie, lavora per lui. Ma le cose cambieranno poiché lei ha altre ambizioni professionali e personali. Sta insieme ad un'altra donna.

Come vive il mondo di Hollywood?

Essendo io stesso un figlio di immgrati, mi sento a mio agio a Los Angeles che è un minestrone di culture. Questa città appartiene a chi vuole farne parte. Hollywood, per me, è più un concetto, un'idea. È un nome che colpisce e che scintilla, uno specchietto per le allodole. È anche parecchie bugie, ma bugie che in fondo raccontiamo a noi stessi, perché è quella l'immagine che abbiamo voglia di darci di Hollywood. Quando si arriva qui, si comincia a comprendere il meccanismo, ci si rende conto che ci sono molte luci e paillettes a fronte di poca sostanza. Non sono un grande fan di Hollywood ma resta una rappa importante per la mia carriera.

«Vivere nell'incertezza è il più grande compromesso.»

Se avesse le stesse possibilità che offre L.A. professionalmente in un'altra città, quale sceglierebbe?

Ebbene sceglierei Parigi! Ma se sono venuto a L.A. un motivo c'è, ed è che ho davvero intenzione di fare una carriera internazionale, anche se non è per nulla facile. A volte sono deluso da ciò che Hollywood offre. Per la televisione, Hollywood offre molte belle cose, per il cinema devo ammettere di essere molto più innamorato di quello europeo. Non c'è molto cinema d'autore, sono soprattutto grandi produzioni, blockbuster. Ma ovviamente non direi «no» se mi proponessero di recitare in un blockbuster, benché non sia questo che mi fa sognare.

Qual è il ruolo dei suoi sogni?

Non si tratta per forza di un ruolo, piuttosto il fatto di lavorare con persone che fanno del cinema e della tv intelligenti. Non nel senso di intellettuali quanto piuttosto di emozionanti, che facciano fremere e scuotano la sensibilità delle persone. Non direi di no ad un ruolo in «Captain America», ma preferei di gran lunga lavorare con il regista Paul Thomas Anderson ad esempio. Un cinema d'autore che ci dia una visione del mondo da vicino.

Qual compromesso ha dovuto accettare per il suo mestiere di attore?

La vita dell'artista in generale direi che rappresenta già un bel compromesso. Si sogna spesso la vita dell'attore, ma la competizione è dura. La verità è che è un mestiere folle! Bisogna essere mezzi matti per farlo. Io ho la fortuna di avere una famiglia stabile e degli amici. Qualsiasi lavoro si abbia nel mondo del cinema, raramente si può prevedere ciò che capiterà domani. Bisogna davvero avere le spalle larghe. Vivere nell'incertezza è il compromesso più grande. Oggi si ottiene un super-ruolo e domani il telefono non squilla più: è il mestiere dell'attore. E credo che sia lo stesso per gli attori di qualsiasi livello.

Su Instagram lei non esita ad esprimere la sua opinione, a dire ciò che pensa. Questo atteggiamento è dovuto in qualche modo al rap?

Il rap è uno strumento utile per sciogliere la lingua. Ma dal momento che questo strumento non ce l'ho più, se posso esprimermi in altro modo lo faccio, questo è certo! Ma non ho più 20 anni quindi non lo farei per forza con un comportamento ribelle. 

E il rap, o il fatto di suonare su un palco, non sono cose che le mancano?

Il rap non mi manca. Stare sul palcoscenico e condividere la propria musica con un pubblico, questo sì mi manca e mi mancherà sempre perché è qualcosa di emozionalmente molto potente. È difficile dimenticarlo e chiuderlo in un cassetto. Adoro il mestiere di attore, ma non ho mai completamente abbandonato la musica. D'altra parte in questo momento lavoro su alcuni nuovi pezzi che presto saranno pronti. 

Quale genere musicale ascolta in privato oggi?

Del rap, ma essenzialmente per mio figlio di 11 anni che adora il rap come quello di Atlanta o di Toronto. Ma a me interessa di più la musica un po' meno commerciale, più alternativa.

Le riprese di «The L Word: Generation Q» sono cominciate. La serie andrà in onda sull'emittente americana Showtime nell'autunno del 2019.

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