«I re del luna park» Giulio Beranek: «Mio padre era una giostra, io voglio essere una casa»

Covermedia

13.5.2025 - 16:30

Giulio Beranek
Giulio Beranek

Attore per destino, padre per scelta, figlio della precarietà. Giulio Beranek racconta il bisogno di stabilità dopo un'infanzia vissuta sotto un tendone, dove l'unico punto fermo era un cartoncino con scritto «omaggio».

Covermedia

Non è stato il cinema a salvarlo, né il teatro. È stata la possibilità di raccontarsi per intero. Senza interrompersi, senza tagli. Così è nato «I re del luna park», il documentario che Giulio Beranek ha girato come un flusso, un'unica lunga verità.

«Ho iniziato a parlare e non mi sono più fermato fino allo stop. Era il mio modo di sistemare il passato», ha raccontato al Corriere della Sera.

Per capire dove si trova oggi, bisogna partire da ciò che non ha avuto: una casa stabile, una scuola da frequentare a lungo, degli amici con cui condividere gli anni. Nato in una famiglia di giostrai pugliesi, Beranek ha passato l'infanzia tra piazze, permessi comunali, tendoni e minacce.

«La mia sicurezza era un cartoncino: se c'era scritto «omaggio», voleva dire che avremmo lavorato tranquilli».

Padre di due figli

Oggi che è padre di due figli, Giulio vuole restituire un'infanzia diversa. Non rinnega quella vissuta: ne salva la libertà, la vita all'aperto, la comunità di zii e cugini. Ma lascia fuori la paura: che una rissa possa coinvolgere tuo padre, o che qualcuno ti bruci la roulotte in cui vivi.

Non è cresciuto nei libri, ma nella pratica: «Sono diventato adulto troppo in fretta, senza strumenti per relazionarmi. A Roma, da ragazzo, mi sentivo fuori posto. Ma ho ricostruito tutto da zero, e oggi sono grato a quella fatica».

Anche per questo non ha mai rincorso il successo, né le scorciatoie. È il mestiere dell'attore ad averlo trovato, non il contrario. «Mi è capitato addosso, ma mi veniva naturale. Basta credere in ciò che fai: se lo fai davvero, anche il pubblico ci crederà».

Interpreta un uomo tormentato

Sul set della serie Gerri, in onda su Rai1, interpreta un uomo tormentato, Gregorio Esposito, ispettore della mobile di Bari. Un personaggio in lotta con se stesso e con le sue origini: «Cupissimo. L'opposto di me. Gerri cerca radici, ma io sono figlio dell'instabilità. Sono cresciuto nomade, e lui è stato abbandonato. Due ferite diverse, ma ugualmente profonde».

Quell'infanzia nomade, però, oggi ha trovato forma nelle sue parole: prima nel libro Il figlio delle rane, poi nel documentario. Raccontare, per lui, è diventato necessario. «Scrivere è stato un addio all'infanzia di mia figlia. Filmare, un addio alla mia».

Nel frattempo, Giulio ha imparato che anche la nostalgia può essere una forma di forza, se incanalata bene. L'ha trasformata in memoria attiva, in racconto, in forma d'arte. «Non puoi stare tutta la vita a combattere contro ciò che sei stato. A un certo punto devi integrarlo, usarlo, magari anche riderci sopra». Ed è proprio questa lucidità emotiva a renderlo così credibile sullo schermo: non interpreta, metabolizza.

Oggi il suo talento si misura più nella misura che nell'eccess

Oggi il suo talento si misura più nella misura che nell'eccesso. Non urla, non esagera, non cerca il protagonismo. «Mi interessa dare verità a un personaggio, non piacere a tutti». Forse è per questo che Gerri funziona: perché dentro quello sguardo ombroso, c'è anche tutto ciò che Beranek ha imparato a non essere. O meglio: a superare.

E nonostante gli anni passati a montare e smontare vite, oggi l'attore ha trovato un equilibrio semplice e prezioso: una casa, una famiglia, un mestiere che lo rispecchia. «Non voglio diventare famoso, voglio restare fedele a quello che ero. Se ci riesco, anche solo per un altro anno, per un altro ruolo, sarà abbastanza».