Rivelazioni Natasha Stefanenko: «Mi chiamavano antennona, prolunga, giraffona»

Covermedia

29.5.2023 - 13:00

Natasha Stefanenko
Natasha Stefanenko

La modella ripercorre la sua adolescenza trascorsa in Russia, all’ombra del regime: «Vivevo in un paese fantasma».

29.5.2023 - 13:00

All’alba dei 52 anni, Natasha Stefanenko ha voluto ricordare le sue origini e l’arrivo in Italia. Nata e cresciuta a S-45 distante 250 chilometri da Ekaterinburg, la città non era segnata sulle mappe geografiche.

«Era una città segreta che non esisteva sulla mappa geografica – dice Natasha a "Vanity Fair" –. Con la testa di oggi è una cosa inquietante a pensarci: era circondata da mura e filo spinato, allarmi ovunque, pattugliata da militari armati, ogni 100 metri c’era un cane lupo legato a un filo d’acciaio che correva a destra e sinistra. Si produceva uranio arricchito per le testate nucleari e mio padre lavorava lì. Città così ce n’erano una quarantina in tutta l’Urss, erano state volute da Stalin dopo la Seconda guerra mondiale. Città fantasma e segrete. S-45 fu costruita nel 1947, grazie ai detenuti dei gulag, che poi non potevano certo tornare a raccontarlo».

«Mi facevano sentire brutta»

Sbarcata in Italia, la Stefanenko è rimasta attonita.

«A Mosca i negozi erano tutti vuoti, la crisi era bestiale. Quando ho visto il primo supermercato a Milano mi veniva da piangere per l’emozione, tutti gli scaffali pieni, tutti quei colori. Da noi se arrivava lo zucchero ne prendevi 10 pacchi per sicurezza perché magari il giorno dopo non lo trovavi. All’inizio mi veniva naturale tirare su 10 vasetti di yogurt. Poi pensavo: vergognati, mettili a posto».

Nulla nel suo aspetto di adolescente però lasciava presagire il suo futuro da modella.

«Mi chiamavano antennona, prolunga, giraffona, mi facevano sentire brutta e in effetti fino ai 17 anni sono stata proprio bruttarella, non solo per l’altezza. Ero praticamente albina, secca secca, la gambe due stecchini, molto complessata, non sopportavo lo specchio. Ero una bambina insicura, mi vergognavo di me stessa, non capivo come qualcuno avrebbe potuto volermi bene. Mi dicevo: va beh, fa niente, affronterò il mondo con l’intelligenza e lo studio».

Per questo si è laureata come ingegnere metallurgico. «Non c’era un maschio, manco uno, che mi guardava, ero invisibile, trasparente. Quindi ho scelto di proposito una facoltà che frequentavano i maschi, solo il 10% erano donne. Pensavo: qualcuno mi vorrà bene, mi sceglierà. Quando sono andata a Mosca a fare l’università. È stato uno choc vedere dei maschi che mi guardavano. Che stress! Non ero abituata, non sapevo cosa fare, non riuscivo a gestire le emozioni; se mi guardavano in metropolitana pensavo di essermi dimenticata qualche pezzo di abbigliamento».

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