In esclusiva per blue Sport, il ciclista Matteo Badilatti del team francese Groupama FDJ ci parla di sé, del suo arrivo al professionismo, del mondo delle due ruote e di altro ancora.
Matteo Badilatti, il 29enne ciclista grigionese della Groupama-FDJ, è reduce dal suo primo Giro d'Italia che ha concluso con un sorprendente e ottimo
Nato del 1992 a Poschiavo, nel Canton Grigioni, Matteo Badilatti è oggi uno degli affermati ciclisti professionisti svizzeri, impegnato ora al Tour de Suisse dopo il suo primo grande Giro... la sua corsa preferita come racconterà poi.
Un percorso abbastanza peculiare il suo: nato in montagna, dove calcio, hockey e sci sono sport che la fanno da padroni.
Badilatti è arrivato tardi al professionismo, a soli 25 anni, dopo essersi prima dedicato agli studi. Una scelta la sua, dettata dalla concretezza tipica della gente di montagna.
Oggi Badilatti corre per il team francese Groupama FDJ, dopo aver trascorso due stagioni al servizio dell’Israel Start-Up Nation.
Perché la bicicletta non il calcio o l’hockey?
«A dire la verità - racconta il 28enne - ho provato diversi sport prima di mettermi sulle due ruote: ho giocato a calcio, ho fatto dello sci di fondo e della corsa. Poi, e non riesco a spiegare bene nemmeno a me stesso, ho inforcato al bicicletta e da lì, il processo è stato un evolversi quasi naturale. Credo pure che agli sport di resistenza ci si possa arrivare anche più tardi, in quanto la componente tecnica non è così rilevante come in altre discipline sportive.
Sono salito sul treno e da lì la corsa è iniziata.
A pensarci bene, a fondo, ciò che mi ha affascinato della bicicletta e ciò che mi rende dolce ancora oggi le durissime sessioni d’allenamento: il senso di libertà che mi dà l’essere in sella, il potermi spostare da un punto all’altro, gustandomi tutto ciò che c’è in mezzo»
Dunque c’è tempo anche per apprezzare il paesaggio che si dipana lungo il percorso?
«Certo. A dipendenza dei momenti di gara o di allenamento, si ha la possibilità di godere di paesaggi davvero incantevoli».
Il ciclismo è stato uno sport che forse come nessun altro ha generato sentimenti davvero contrapposti: enorme entusiasmo per le imprese eroiche dei vari Coppi, Merkx, Indurain e Pantani, profonde delusioni per i fatti legati al doping.
Da primo attore, come senti oggi il calore e la passione della gente?
«La scorsa stagione e quella appena iniziata non saranno certo ricordate per i bagni di folla che accompagno le grandi corse. Aldilà di ciò, posso dire che il calore della gente, le emozioni che ancora oggi sappiamo trasmettere a chi ci attende in cima ad un passo, nelle città o sul rettilineo del traguardo sono uno dei motivi che mi ha fatto amare questa disciplina sportiva. Se penso invece al doping e alla sua lotta, posso dire che oggi i controlli sono sempre presenti, la prevenzione è davvero capillare».
Tu fai parte della stessa squadra di Stefan Küng (il campione svizzero). Cosa contraddistingue i ciclisti svizzeri dagli olandesi, francesi, australiani e italiani che conosci bene in quanto ve ne sono diversi nella tua squadra?
«Siamo un bel gruppo affiatato e tra di noi c'è un bel rapporto di stima ed amicizia. Da un punto di vista tecnico direi che forse noi svizzeri siamo più completi. A differenza delle grandi nazioni del ciclismo come l'Italia, la Francia, la Spagna ecc., i nostri ragazzi hanno la possibilità di praticare svariate attività sportive. Direi che c'è un approccio molto più polivalente , graduale e meno restrittivo. Inoltre noi svizzeri parliamo un pò con tutti: italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, ecc. I ragazzi delle altre nazioni tendono a chiudersi in una sorta di "clan", mentre noi, forse proprio per la composizione multiculturale e linguistica della Svizzera, siamo più aperti, quasi facesse parte di un DNA nazionale».
Se ti dicessero di scegliere una grande gara da vincere, e dovessi scegliere tra il Tour, il Giro o La Vuelta. Quale sceglieresti?
(Non esita, la risposta arriva veloce) «Il Giro. Sono cresciuto a pochi passi dal’Italia, culturalmente abbiamo diversi aspetti in comune con gli italiani, lingua compresa. Da bambino, a volte ho visto il Giro salire per lo Stelvio … è una scelta direi quasi naturale. Certo il Tour è la gara ciclista a tappe più importante e famosa, non ci sono dubbi, ma al Giro mi legano le mie memorie, la vicinanza alla mia Valle e alle mie radici».
Proprio di quelle radici che ancora oggi, da professionista, ha bisogno di attingere più di prima.
«Giro molto e dunque preferisco tornare a casa, dove vivono i miei genitori e dove sono nato quando posso». A casa nella piccola valle alpina che fa da ponte tra l’Engadina e la Valtellina.
Dunque ti alleni spesso da solo?
«Quando sono in valle a volte mi incontro con uno o due altri professionisti che vivono nella vicina Valtellina, ma spesso mi alleno da solo: non mi pesa più di molto, certo che allenarsi in compagnia è più bello, e questa possibilità ce l’ho quando ci troviamo per dei campi di allenamento».
Da bambino e da ragazzo, qual’è stato il tuo modello di professionista, al quale guardavi con ammirazione? Un velocista come Cancellara? Uno scalatore come Botero oppure uno che sa difendersi bene su ogni percorso?
«Strano -ride - se ci penso bene non ho mai seguito granché il ciclismo. Certo, ricordo Pantani e Albasini, un ex corridore svizzero che ha delle radici poschiavine».
Sei appena rientrato dal tour negli Emirati Arabi Uniti, dove hai concluso al 23esimo posto. Un ottimo risultato.
Quali sono i tuoi obiettivi stagionali?
«È mia intenzione migliorare ancora di più la mia condizione fisica, così da essere sempre presente in salita per aiutare la mia squadra nel miglior modo possibile».
Quale consiglio daresti a quei ragazzi che sognano di diventare professionisti delle due ruote?
«Consiglierei loro di provare diversi sport, di divertirsi, poi, credo che naturalmente ognuno dovrebbe riconoscere in quale di essi risiede la propria vera passione. Capisco però, e sempre di più oggi, che ci sono sport i quali richiedono al bambino-ragazzo di impegnarsi quasi esclusivamente ad esso. Lo trovo un peccato».
Passione che ti trasforma in cosa di concreto?
«Come già detto in precedenza nel mio caso il ciclismo è simbolo di libertà, oltre che essere un’ottima valvola di sfogo. Inoltre, ricordo bene la prima volta che percorsi - da solo - il giro che da Poschiavo ti porta allo Stelvio: mi sembrava un’impresa epica. Mi riempì di orgoglio personale.
Invitante, bello.
Ma per essere un atleta di punta a qualcosa dovrai pure rinunciare?
«La mie più grosse rinunce riguardano la tavola: a volte devo dire 'no' al dessert. La salita non perdona gli etti in più».
Fulvio Sulmoni, in una recente intervista concessa a noi di blue Sport, ha raccontato di come nell’ambiente del calcio vi sono troppe persone arriviste, false, che per il loro tornaconto sono disposte a mentire, tradire. In tal senso qual’è la tua esperienza nel mondo del grande ciclismo?
«Mi sento fortunato ad aver sempre incontrato delle brave persone, corrette e pronte a darmi una mano. I rapporti che si creano con gli altri corridori, con i componenti del team sono diventati uno dei motivi perché questo sport mi piace così tanto. Senza la bellezza dei rapporti interpersonali il ciclismo sarebbe per me molto più povero».
Un libro che porteresti sempre con te, ovunque?
- Diretto - «Le montagne della mia vita», di Walter Bonatti. È fonte d’ispirazione, lo sento molto vicino a me e alla mia gente».
Grazie mille Matteo, e in bocca al lupo per questa stagione sportiva.