Grandi impreseAccordo storico al G7, tassa minima a 15% per i big
SDA
5.6.2021 - 21:15
Svolta «storica» sulla strada d'una maggiore equità globale nella tassazione delle grandi aziende, destinata nelle intenzioni a far pagare di più in primis chi si è arricchito ulteriormente nei mesi della pandemia (ossia i colossi del web) e a garantire risorse a Paesi e governi alle prese con l'esigenza di continuare a usare la leva dell'intervento pubblico per sostenere la ripresa post-Covid.
05.06.2021, 21:15
05.06.2021, 21:16
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È il risultato chiave della riunione dei ministri finanziari del G7 chiusasi oggi a Londra sotto presidenza britannica: riunione a cui gli Usa hanno partecipato con l'ex presidente della Fed e nuova segretaria al Tesoro dell'amministrazione Biden, Janet Yellen, e nelle cui conclusioni è stata rimarcata la volontà di insistere nella strategia di politiche economiche «espansive» per tutto il tempo che sarà necessario a uscire dalla crisi, sia pure con l'impegno a vigilare su deficit e a rimettere in sesto i conti pubblici una volta superata la recessione.
L'intesa anti-elusione infatti per ora impegna i 7 Grandi, in attesa di essere discussa nella sede del G20 a presidenza italiana nell'ambito del vertice di luglio a Venezia allargato alla presenza di altri attori cruciali del mondo, come Cina e Russia.
Intesa su «due pilastri»
In sostanza, come indicato dal comunicato finale della riunione, si tratta di un intesa fondata su «due pilastri»: l'introduzione del principio di un'aliquota globale minima del 15% per le grandi imprese, da applicare Paese per Paese in modo da allontanare gli eccessi di concorrenza sleale; e quella di una stretta sull'elusione che dovrebbe riguardare anche e soprattutto i big Usa del tech (non citati espressamente, ma evidentemente compresi fra le multinazionali di spicco) con l'imposizione di tasse sul 20% degli utili oltre la soglia del 10% di profitto da «riallocare nei Paesi in cui si effettuano le vendite».
Al netto della domiciliazione nominale in qualunque paradiso fiscale. Un sistema che a regime dovrebbe portare miliardi di euro in più nelle casse di tanti Stati; costringere colossi come Amazon, Facebook, Google o Microsoft a versare complessivamente di più; e consentire di evitare casi come quello delle 'zero tasse' versate dalla filiale irlandese del gruppo fondato da Bill Gates grazie alla residenza legale (senza un singolo dipendente impiegato) stabilita nelle Bermuda.
Il bilancio dell'incontro a Londra
Nel fare un bilancio dell'incontro di Londra – segnato anche da un via libera al progetto volto a obbligare le imprese alla pubblicazione dei rischi climatici legati alle loro attività, nonché da impegni più generici sul fronte dei vaccini e il sostegno alla ripresa economica post Covid dei Paesi più poveri – il padrone di casa Rishi Sunak, cancelliere dello Scacchiere nel governo di Boris Johnson (che tra una settimana si appresta a ospitare in Cornovaglia il primo summit in presenza del dopo pandemia dei capi di Stato e di Governo dei Sette, fra cui Joe Biden e Mario Draghi), si è dichiarato «orgoglioso» di «un accordo storico adeguato all'era globale digitale» contemporanea.
Mentre parole analoghe sono venute dalla Jellen, che ha salutato l'inizio della fine della corsa fiscale «al ribasso». E il titolare delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, ha addirittura evocato «una rivoluzione» in grado di «cambiare il mondo».
Nodi da risolvere
In effetti restano le incognite sul graduale quanto cruciale allargamento di questo schema al G20, anche se oggi prevale l'ottimismo al riguardo. Come pure sui meccanismi tecnico-legislativi e sui tempi di attuazione. Il percorso in ogni caso appare segnato.
E se verrà accolto anche dal G20 potrebbe mettere in movimento «un treno globale» a cui tutti i vagoni dovranno in qualche modo agganciarsi. Inclusi quelli di Paesi europei che sulla concorrenza fiscale hanno finora puntato di più: come l'Ungheria o l'Irlanda (che ha al momento una Corporate Tax non superiore al 12,5%), il cui ministro Paschal Donohoe non ha mancato di rivendicare stasera stessa il diritto a distinguere fra Stati «medi e piccoli, sviluppati e in via di sviluppo».