BARCELLONA
Centinaia di migliaia di persone - 350mila per la polizia, 950mila per gli organizzatori - hanno invaso oggi il centro di Barcellona per opporsi ai piani del presidente catalano Carles Puigdemont di proclamare, forse già martedì, l'indipendenza.
Una moltitudine arrivata da tutta la Catalogna e da tutta la Spagna al grido di "Puigdemont in prigione" e "Siamo catalani, catalani e spagnoli". E infiammata dalle parole di Mario Vargas Llosa, il Nobel peruviano naturalizzato spagnolo che ha condannato dal palco il "golpe" indipendentista.
"Non siete soli", ha twittato il premier spagnolo Mariano Rajoy salutando il raduno. Una risposta di quella che si autodefinisce la "maggioranza silenziosa", di quella metà circa della Catalogna che vuole restare spagnola, alle altre maree umane scese in piazza negli ultimi giorni per rivendicare l'indipendenza e denunciare le violenze della polizia spagnola.
E anche alle decine di migliaia di catalani e spagnoli che hanno manifestato ieri a Madrid a Barcellona per esigere un dialogo dopo mesi di muro contro muro che eviti ora un pericoloso avvitamento della crisi.
La pressione della piazza si aggiunge alle mille altre in corso su Puigdemont e su Rajoy, i due grandi protagonisti della crisi più grave della Spagna del dopo-Franco.
Sono le 48 ore più critiche del conflitto catalano. Il leader catalano deve decidere se martedì sera proporre al Parlamento una dichiarazione di indipendenza. Oppure optare per un rinvio che favorisca un negoziato con Madrid.
"La dichiarazione di indipendenza è prevista dalla legge del referendum come applicazione dei risultati: applicheremo quanto dice la legge", ha ribadito Puigdemont in un'intervista registrata nei giorni scorsi e andata in onda stasera su Tv3.
Ma la situazione cambia di ora in ora e le parole di ieri potrebbero essere già superate. Il fronte separatista è diviso. L'ala sinistra, la Cup, preme per una proclamazione immediata, i moderati del PdeCat del presidente frenano. Tanto più che il gotha economico catalano ha avvertito Puigdemont che la secessione sarebbe "una bomba" devastante per l'economia.
E la fuga delle sedi sociali di grandi banche e società allarma la gente, che teme un tracollo alla greca o all'argentina, oltre alle possibili misure repressive di Madrid.
Anche Rajoy è sottoposto a pressioni fortissime. Dal referendum di domenica non ha ceduto agli appelli per immediate misure drastiche contro la regione ribelle, come l'attivazione dell'articolo 155 della Costituzione per sospendere l'autonomia, destituire Puigdemont e imporre elezioni anticipate, con il rischio di provocare gravi disordini.
Da galiziano caparbio il premier, "senza escludere nulla", finora non ha ceduto, né dopo il duro discorso del re, né alle provocazioni del suo predecessore José Maria Aznar, né agli appelli quotidiani della stampa madrilena. Rajoy sa che il mondo ha gli occhi puntati su Barcellona. E su di lui.
"Ho l'obbligo di mantenere la calma. E' il mio primo dovere, perché altrimenti posso prendere una decisione sbagliata", ha spiegato in un'intervista a El Pais. Ma si è detto anche pronto a impugnare 'l'arma atomica' del 155 o dello stato di emergenza, se e quando sarà necessario. Anche se, dopo che per settimane ha garantito che "il referendum illegale non si farà", a qualcuno le sue minacce sembrano una pistola scarica.
L'intransigenza di Madrid, che dice di non volere mediazioni, per ora sembra aver affondato tutte le iniziative. Ma non è escluso che dietro le quinte qualcosa si stia muovendo. Restano 48 ore.
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