Ieri, mercoledì 28 aprile, l'UFSP ha segnalato la 10.001esima vittima del COVID-19 in Svizzera. La gente spesso parla del numero piuttosto che delle persone. Ma i defunti meritano più dignità, le persone in lutto più conforto.
29.04.2021, 06:00
Andreas Fischer
La prima deceduta era ancora una persona con una storia di vita propria. Il 5 marzo 2020, una donna di 74 anni del canton Vaud è morta all'ospedale universitario di Losanna, il CHUV, a causa del Covid. All'epoca, Rebecca Ruiz, la responsabile della sanità vodese, aveva espresso le sue condoglianze alla famiglia colpita nel corso di una conferenza stampa programmata frettolosamente.
Ieri, l'Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) ha segnalato 19 nuovi decessi nel suo comunicato quotidiano. Ciò significa che un totale di 10'001 persone sono morte di Covid-19 in Svizzera dall'inizio della pandemia.
Queste persone, ora, fanno parte soprattutto delle statistiche. La gente legge le cifre, ne prende nota e forse mormora qualche parola di rammarico. Non succede molto di più nella società e nella politica.
Non si parla molto di morire con o per il coronavirus, è quasi una realtà scontata. A volte sembra che i morti non esistano. Ma è successo davvero. 10'001 morti sono 10'001 destini: persone che avevano famiglie, amici, vicini.
Lo scambio con persone con lo stesso destino aiuta
In una società che lotta per trovare un modo appropriato per fare i conti con i morti di Covid, le persone in lutto possono molto rapidamente sentirsi abbandonate.
Possono trovare conforto, per esempio, al Selbsthilfe di Zurigo (in tedesco), dove è stato istituito un gruppo di auto-aiuto per le persone toccate da un lutto provocato dal Covid: «Scambiare idee con persone che hanno vissuto lo stesso tipo di esperienza è un grande sostegno nelle situazioni difficili», dice l'assistente sociale Michelle Guggenbühl.
Thomas Grossenbacher è una delle persone che offre conforto. Il pastore dirige la chiesa riformata dell'ospedale Triemli di Zurigo. «Diecimila è un grande numero, senza dubbio. Come pastore, ho grande rispetto per ogni perdita. È sempre associata al dolore, per i morenti stessi e per i parenti», dice Grossenbacher in un'intervista a «blue News».
Per il pastore è importante non pensare solo ai morti della pandemia: «In Svizzera, circa 180 persone muoiono ogni giorno, secondo le statistiche della Confederazione del 2019, quindi prima del Covid. È importante non dimenticare nemmeno queste persone quando si porta alla luce il lutto delle morti di Covid». Del resto la morte non può essere ritardata: «È una realtà, siamo esseri finiti». L'abbiamo dimenticato in tutta l'arroganza della nostra mentalità del fare. «Tutti muoiono», dice Grossenbacher. «A un certo punto. Di qualcosa».
Dibattito sul Covid senza parlare di morti
Ma in generale della morte se ne parla troppo poco in Svizzera, secondo il gerontologo François Höpflinger espressosi sul giornale «Zeit». Il professore emerito di sociologia all'Università di Zurigo ne ravvisa le ragioni in una generale «professionalità del morire» e «privatizzazione della morte».
Nel caso delle morti dovute al Covid, aggiunge, molte delle persone decedute avevano precedentemente vissuto in case di riposo ed erano molto anziane: «Questi morti non sono rilevanti per la vita quotidiana. Le loro morti non sono inquietanti». Almeno nella percezione pubblica. In Svizzera manca un dibattito su come affrontare la morte ai tempi della pandemia.
Fino alla fine del 2020 non si è pensato a nominare nella task force Covid-19 del Governo federale un esperto di questo tema. Sophie Pautex, medico di cure palliative di Ginevra, invita a «pensare al morire nella pandemia».
Invece dei numeri, l'attenzione dovrebbe concentrarsi sulle persone colpite. «Questo ci avvicinerebbe un po' di più ai morti, che erano, dopo tutto, esseri umani». Le persone dovrebbero poter essere accompagnate con dignità e senza molto dolore e sofferenza fino alla fine della loro vita, chiede Pautex. E dovrebbe essere possibile, secondo l'esperta, anche in condizioni di cura difficili e con un regime delle visite molto severo a causa del virus.
«Colpisce il cuore»
Soprattutto durante la prima ondata, è stato molto difficile per i parenti rendere visita ai morenti, riferisce Grossenbacher. «All'epoca, diversi reparti del Triemli erano al limite. Era impegnativo per tutti, per il personale medico e per noi cappellani. Passavo mezze giornate intere con addosso la tenuta ormai nota grazie alle molte foto: mascherina, tuta protettiva completa e pure gli occhiali. È una situazione difficile quando uno non vede quasi nulla dell'altro. Fa sì che la gente abbia ancora più paura della morte. Colpisce il cuore, non solo il fisico, ma il cuore».
I pazienti di Covid, racconta, «spesso non riuscivano a entrare in contatto con i cappellani perché erano rapidamente messi sotto ventilazione artificiale. Da intubati non si può più parlare e si viene anche sedati. Ci possono essere degli stati di semi-veglia in cui si può ancora comunicare unilateralmente con il contatto visivo o una stretta di mano e ottenere un feedback. Ma ovviamente questo non ha la densità e la differenziazione a cui siamo abituati».
Grossenbacher dice apertamente di essersi sentito impotente. «Abbiamo dovuto innanzitutto capire come permettere ai parenti di salutare i propri cari durante una pandemia, capire come renderlo il più umano possibile, ma anche farlo in modo responsabile in maniera tale da non diffondere ulteriormente il virus».
La distanza rende difficile dire addio
Il coronavirus ha reso più problematico il modo di dire addio. «È segnato da inadeguatezza perché non puoi prepararti come in altri casi, come le malattie di lunga durata».
«Morire è sempre una costante, il lutto è sempre una costante», dice Grossenbacher. Il cappellano non vede i morti della pandemia presi sul serio. «Ci sono aspetti scandalosi in questa nuova forma di malattia che ha colpito il mondo. Molte persone hanno solo assistito da lontano alla morte di qualcuno. Proprio a causa della distanza richiesta, l'intimità, che per natura richiede vicinanza e familiarità, è diventata difficile».
Tuttavia, «c'è ancora molto su cui riflettere in merito alla gestione la pandemia, non solo politicamente. Abbiamo attraversato una fase e ora dobbiamo riflettere, anche per imparare come affrontare situazioni simili in futuro. Continueremo a essere mortali, questo non può essere cambiato», dice Grossenbacher e cita una frase del pastore Kurt Marti che lo aiuta a sopportare la vita nella sua finitezza e nei suoi tratti duri: «Lodate la vita, che è dura e bella».