LettoniaÈ morto a causa del Covid il regista coreano Kim Ki-duk
SDA
11.12.2020 - 16:26
Il famoso regista coreano Kim Ki-duk è morto a causa del coronavirus in Lettonia, secondo quanto riporta il giornale locale Delfi. Il regista è deceduto per complicazioni legate al Covid-19.
Il regista coreano, 59 anni, Leone d'Oro a Venezia nel 2012, era arrivato in Lettonia il 20 novembre. Il direttore dell'Art Doc Fest di Riga, Vitalijs Manskis, ha detto che Kim Ki-duk stava per acquistare una casa a Jurmala e richiedere un permesso di soggiorno, ma non si era presentato all'incontro.
Successivamente, i suoi colleghi avevano iniziato a cercarlo negli ospedali, riferisce sempre Delfi. La morte del regista è stata confermata anche dalla sua interprete Daria Krutova.
Una perfetta sintesi del suo stile
Se fossimo in un suo film, le circostanze della morte del grande maestro coreano Kim Ki-duk sarebbero la perfetta sintesi dei due stili che hanno caratterizzato la sua opera.
Ci si potrebbe trovare la vena intimista della solitudine e del disagio nel racconto di un uomo che cerca di sfuggire alle ombre della sua vita e si rifugia lontano da casa per poi trovarsi solo, come in patria.
Ma si potrebbe anche evocare il Kim Ki-duk polemista e ribelle, incapace di riconoscere la sua terra, inseguito dal terrore di un ferreo controllo statale e che cerca quindi altrove, nella lontana Lettonia, il sapore della libertà per poi finire i suoi giorni isolato in una stanza d'ospedale. Certo da oggi non solo il cinema, ma la cultura tutta perde una voce potente, quella di un poeta disperato.
Un talento che unisce lirismo e ferocia
Nato a Bonghwa, nel cuore della Corea del Sud, il 20 dicembre del 1960, Kim Ki-duk ha mancato per pochi giorni l'appuntamento col suo 60° compleanno e forse questo è un bene perché le ricorrenze sarebbero pesate, come il passaggio del tempo, a questo eterno ragazzo che faceva del sorriso, della riservatezza e della poesia il suo rifugio dai colpi della vita.
Emigrato con la famiglia quando ha appena sette anni, limitato dalle precarie condizioni economiche dei genitori, studente di agricoltura, ad appena 17 anni deve trovarsi un lavoro e finisce prima in fabbrica e poi arruolato in marina. La visita a una chiesa per ciechi lo conduce, quasi come una folgorazione, alla religione cattolica e per un periodo pensa di farsi predicatore.
Invece a 30 anni sceglie la via dell'arte, emigra a Parigi e si mantiene vendendo i suoi quadri; in Europa scopre anche il linguaggio del cinema e nel 1993 firma la sua prima sceneggiatura cui seguirà, tornato in patria, il suo primo lungometraggio, «Crocodile» (1996). L'amara cronistoria di un uomo che vive sotto un ponte aspettando i cadaveri dei suicidi per derubarli è già emblematica di un talento che accoppia lirismo e ferocia.
Dopo il successo a Venezia, conteso dai più grandi festival
Col passaggio al nuovo millennio, arrivato all'opera quinta, Kim ki-duk diventa improvvisamente una star del cinema d'autore con lo scandaloso «L'isola», presentato alla Mostra di Venezia nel 2000. Passione, sadismo, criminalità e disperazione sono l'esplosivo cocktail che si concentra nel tormentato rapporto tra un omicida in fuga e la silenziosa custode di un villaggio-benessere sperso nella campagna in riva a un lago.
Al successo veneziano il regista rimarrà affettivamente legato, tanto da tornarvi più volte: nel 2004 con «Ferro 3» che gli vale il Leone d'argento, nel 2012 per il Leone d'oro di «Pietà», l'anno successivo con «Moebius» e poi ancora con il pamphlet politico «One to One» alle Giornate degli Autori e «Il prigioniero coreano» fuori concorso nel 2016.
Intanto però tutti i grandi festival se lo contendono e la sua furia creativa lo spinge a sperimentazioni ardite ("Real fiction» girato in tempo reale, appena 200 minuti), provocazioni tra erotismo e violenza ("Bad Guy"), incursioni metaforiche ("Time").
La consacrazione nel 2003 a Locarno
Deve la consacrazione definitiva al festival di Locarno dove nel 2003 presenta il contemplativo «Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera», autentico capolavoro di purezza stilistica e di equilibrio linguistico tra estetica orientale e sentimento universale.
Anche a Cannes è stato di casa, specie nel momento cruciale della sua maturità espressiva. Sulla Croisette ha presentato nel 2005 «L'arco» e due anni dopo è sul set dell'onirico «Dream» coprodotto col Giappone e interpretato dalla star nipponica Joe Odagiri e dalla amata Lee Na-yeong, popolare vedette della tv coreana.
Durante le riprese, un incidente quasi mortale mette in pericolo l'attrice e Kim ki-duk sprofonda in una grave crisi depressiva sentendosi responsabile. Ne uscirà solo tre anni dopo con la terapia cinematografica: ritorna a Cannes nel 2011 con il semi-documentario «Arirang» che è una confessione pubblica della sua disperazione e sarà premiato dalla giuria di Un Certain Regard.
Snobbato in patria, ma esaltato nel resto del mondo
A vedere i suoi film, ci si convince che il regista è un mistico dominato dall'estasi della poesia contemplativa, inseguito dai fantasmi della morte, del dolore, dell'eros, tormentato fino alla scarnificazione di se stesso e ribelle ad ogni sorta di compromesso, specie alla compiacenza politica visto il tono accusatorio delle sue ultime opere, veementi denunce della corruzione e del potere.
Questa sorta di permanente auto-esilio spirituale dalla cultura coreana gli è spesso costato il disinteresse del pubblico e dei mass media in patria. In compenso la sua arte riluceva e veniva esaltata nel resto del mondo. Ma nella vita privata Kim ki-duk era vitale, affettuoso, attento ai suoi amici e discepoli, capace di far festa e di spendere giornate intere a parlare di cinema, estetica, passioni ed emozioni.
Oggi è bello ricordarlo con quel sorriso, appena velato di tristezza, con cui accoglieva chiunque. Chissà se ha potuto sorridere anche alla fine, circondato solo da medici e infermieri, in una stanzetta d'ospedale a Riga.