Giovanni Trapattoni compie oggi 82 anni. Aneddoti, interviste cult e episodi che raccontano in parte la vita dell'allenatore leggendario.
Cosa hanno in comune Giovanni Trapattoni e Luciano Ligabue?
L'essere stati forgiati dal mondo contadino, la passione per il calcio e la qualità, rara, di trasmettere una passione in maniera diretta, che arriva dritta la cuore senza inquinarsi troppo tra le sinapsi della ragione.
Abbiamo scelto le parole di Radio Freccia - capolavoro cinematografico del rocker italiano - per dipanare un poco la vita di Giovanni Trapattoni, il signore del calcio italiano e europeo che oggi compie ottantadue anni.
Mucche, galline e Cusano
«Credo che ognuno di noi si meriterebbe un padre e una madre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi».
Giovanni Trapattoni è nato a Cusano Milanino, fuori Milano, dove allora ci vivevano 5'000 persone, perlopiù dedite all'agricoltura. Giovanni era figlio di contadini, come ama ricordare lui stesso. Papà un uomo inflessibile, severo.
«Ho trascorso la mia infanzia in una cascina con le stalle al fondo. Quando i miei genitori parlano tra loro stanno sempre attenti a distinguere Cusano (dove abitiamo noi) da Milanino, la parte del paese al di là della strada provinciale».
Un'infanzia che ne ha forgiato i modi e le prospettive, rendendo Trapattoni un allenatore diretto, vivace e focoso. Umano.
«Da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Eddie Merckx», diceva Freccia ai microfoni della radio.
«La fortuna di essere nato a Cusano, in quel cascinale con le vacche e la puzza, è che mi ha portato a lottare. Vedere mio padre lavorare 13 ore al giorno mi ha segnato».
Mondo contadino che è ritornato anche in alcune celebri conferenze stampa, come questa d'Irlanda quando il Trap riuscì a mettere in difficoltà anche la traduttrice più navigata.
Coccodè, coccodè...
Giovanni è sempre stato un allenatore che ha chiesto molto ai suoi ragazzi, ricordando loro che quello del calciatore è un lavoro, e come tale, deve essere fatto esercitato con il sudore della fronte.
I tre anni di Inter
«Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa», continua Freccia nel suo attacco serale .
Dopo dieci anni passati alla Juventus durante i quali vinse tutto ciò che si poteva, Giovannino decise di tornare a casa. Con l'Inter vinse uno scudetto, una Supercoppa italiana e la Coppa Uefa. Era la bella Inter di Matthäus, Brehme, Serena, Berti e Walter Zenga.
L'umanità
«Matthaus, poi, era un tipo particolare: aveva continuamente bisogno di conferme, viveva per gli elogi, bisognava dirgli che era bravo, bravissimo, il migliore. Se lo facevi sentire importante, lui dava il massimo, altrimenti tendeva a smontarsi».
«Una volta stava giocando malissimo e mi infuriai nello spogliatoio. Poi feci uscire tutti e rimanemmo soli io e lui. Lo presi con le buone, gli diedi una carezza e provai a consolarlo».
Allenatore che ha sempre coordinato l'umanità al successo, un uomo con i piedi per terra che non si è mai fatto troppo ingolosire dalla fama e dal denaro.
La famiglia
«Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con trecento mila al mese». I denari percepiti da Trapattoni non sono mai stati quelli scarsi pronunciati da Freccia. Una famiglia il Trap se l'è fatta, con Paola, che ha sposato nel lontano 1964.
«Ho avuto una grande fortuna nella vita. Quando facemmo le olimpiadi a Roma conobbi mia moglie: a lei devo il 51 per cento dei miei successi».
La fede
«Credo che non sia tutto qui, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche dio».
E Giovanni Trapattoni, cresciuto in una famiglia cattolicissima in un paese dove la chiesa era ancora al centro del villaggio, la sua fede se l'è sempre tenuta cara.
Simbolico l'episodio che lo raffigura a versare dell’acqua santa sul prato erboso ai Mondiali del 2002. Che altro dire.
Il Trap fuori dall'Italia
L’allenatore più vincente della storia del calcio italiano, ma non solo. A 55 anni il Trap decise di lasciare la sua Italia, la Juventus ( dieci titoli vinti, 969 goal segnati in 596 partite) che aveva guidato per un secondo periodo.
In Europa vinse in 4 paesi diversi, fu capace di far trionfare il Benfica dopo 11 anni di digiuno.
Soprattutto, Trapattoni esportò quello che Allegri ha definito 'il mestiere dell'allenatore': un modello basato su tanta pratica e poca teoria. Poche filosofie e statistiche, bensì lavoro duro, dedizione, regole poche e chiare.
«Non inseguo più chimere, le lascio a Sacchi. Icaro volava, ma Icaro era un pirla».
In giro per l'Europa il Trap fu confrontato con diverse lingue e culture. Non lo impaurirono, anzi, le affrontò come quando da giovane difensore dovette prendersi cura di sua maestà Pelé.
Il suo inglese lombrado, il tedesco trapattoniano e il portoghese fai da te, erano subordinati al suo desiderio di comunicare emozioni, forti, che non lasciavano spazio a dubbi semantici di nessun genere.
Comunicare a tutti i costi
Giocare, sudare ma anche comunicare molto con i suoi giocatori, con i giornalisti che con il tempo hanno imparato ad apprezzare l'uomo.
«Dalla Juve me ne sono andato perché, dopo dieci anni, non avevo più balle da raccontare ai giocatori».
Già. Il Trap è stato un allenatore che con la sua dialettica è riuscito a far sorridere i suoi amanti e i suoi detrattori. La celeberrima conferenza stampa di Monaco dimostra tutta la sua capacità comunicativa, la negazione della paura di sbagliare una forma verbale.
Oggi al calcio manca il suo modo genuino di affrontare le partite e le telecamere. Manca.
E non è tutto qua
«Credo che non sia tutto qua... Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri», conclude Freccia prima di mandare in onda 'Rebel Rebel' di David Bowie.
Oggi il ribelle sarebbe lui.
Trapattoni non è certo tutto qua.
Buon compleanno mister.