La morte di Jason Dupasquier vista con gli occhi di Paolo Simoncelli, il papà di Marco Simoncelli, pilota italiano morto in pista 10 anni fa.
Domenica il diciannovenne pilota svizzero Jason Dupasquier è morto a causa delle conseguenze dell’incidente accorsogli il giorno prima sul circuito del Mugello.
Si scrive, ci si commuove, si prega e si ricorda, ma solo un padre che ha vissuto sulla propria pelle la stessa disgrazia può esprimere meglio di chiunque altro i sentimenti che oggi prova papà Philippe.
Uno è Paolo Simoncelli, padre di Marco Simoncelli - il pilota italiano morto sulla pista di Sepang nel 2011 - intervistato da La Repubblica.
A Jason Dupasquier hanno dedicato un minuto di silenzio alla griglia di partenza, e un quarto d’ora dopo è iniziata la gara alla quale avrebbe dovuto prendere parte anche il povero Jason.
«Eliminerei il minuto di silenzio»
Marco Simoncelli crede che i minuti di silenzio andrebbero evitati. «Qualcuno lo avrà considerato un omaggio, una maniera per esternare rispetto nei confronti di familiari e amici della vittima».
Il papà del Sic invece crede che i minuti di silenzio sono una cosa veramente angosciosa. «Io li eliminerei. A maggior ragione, poco prima di accendere i motori».
Già. E qui scatta un'altra considerazione: correre o non correre una gara dopo una tragedia di questo genere? Tifosi, organizzatori e piloti vivono questi momenti in maniera personale, diversa: c'è chi vorrebbe bloccare tutto e chi invece crede che bisogna andare avanti, anche nel rispetto di chi ha perso la vita per una passione che li accomuna.
«Quella dei piloti è una cosa del tutto personale, ognuno ha una diversa sensibilità. Se è morto un ragazzino che non conoscevi ma inseguiva il tuo stesso sogno, come reagisci?».
Secondo Simoncelli bisognerebbe perlomeno chiedere ai piloti la loro opinione in merito, prima di schierarli sulla griglia di partenza.
«La vita va avanti»
D'altra parte, non si può fermare l'orologio - sarebbe troppo bello - «le cose vanno avanti, anche la vita», ha sostenuto nell'intervista l'italiano che dieci anni fa si è trovato a piangere la morte del figlio pilota.
Anche lui aveva appreso dell'incidente del giovane pilota elvetico, qualcuno già sosteneva che se fosse sopravvissuto - nella migliore delle ipotesi - poteva rimanere attaccato ad una macchina.
Fino a qualche tempo fa il signor Simoncelli credeva di essere stato fortunato nella malasorte, perché suo figlio Marco era morto subito, senza incontrare la sorte della disabilità.
«Ma poi ho visto un caro amico accarezzare la testa al figlio costretto su una sedia a rotelle dopo un incidente di motocross: forse era meglio se anche Marco finiva così», e la commozione lo sopravviene.
Uno sport troppo pericoloso?
La sicurezza in pista è oggi molto migliorata: vi sono vie di fuga, barriere, caschi estremamente protettivi, air-bag e altro ancora, nonostante ciò gl'incidenti mortale capitano ancora.
«Dove c’è velocità c’è pericolo - ha continuato Simoncelli nella sua intervista - succede anche a piedi, o in bicicletta. Se cade un aereo, fermano gli aeroporti? Se qualcuno fa un incidente in auto, chiudono le autostrade? Vivo in campagna: metti che uno si ribalta col trattore e ci resta schiacciato sotto, cosa facciamo? Non lavoriamo più in campagna?».
Rimasto un appassionato anche dopo la morte del figlio, il signor Simoncelli sapeva che Jason Depasquier stava andando forte e che sarebbe molto probabilmente diventato un grande pilota, come suo figlio Marco. Ha conosciuto anche papà Philip, nel 2017, che ha un altro figlio che corre in moto.
A Philip Depasquier Paolo Simoncelli ora non direbbe proprio nulla. Due papà accomunati dalla stessa passione dei figli e dal loro tragico destino.
«Lo abbraccerei. Perché quanto ti succede una cosa così, non c’è più niente da dire. E gli altri non possono capire».