Quanto sono lunghi cinque piani se a quella caduta è affidata la scelta di mettere fine alla propria vita? 10 anni fa, il 29 novembre 2010 moriva Mario Monicelli, di professione regista, di vocazione libero pensatore.
Ricoverato in una clinica romana e consapevole di non avere speranze, scelse di porre fine alla sua vita gettandosi dalla finestra della stanza, al quinto piano.
Per lui non era un gesto improvviso: quando aveva poco più di 30 anni, nel 1946, suo padre Tomaso, raffinato critico teatrale, giornalista, direttore de «L'Avanti», aveva fatto lo stesso percorso e Mario così ne parlava: «Ho capito il suo gesto. Era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita, e sentiva di non avere più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena».
Arguto, solitario, generoso, tagliente, Mario Monicelli ci ha privato troppo presto di un'intelligenza vivida che, come pochi altri, ha fotografato l'Italia nelle sue mille trasformazioni dal dopoguerra ad appena ieri. Nato a Roma (e non a Viareggio come si divertiva a far credere considerandola la sua terra d'elezione) il 16 maggio 1915, ha avuto una bella e lunga vita accompagnata da tre figli e due matrimoni che, nel caso di Chiara Rapaccini, è stato un sodalizio di complicità durato fino alla fine. La sua carriera è ricca di soddisfazioni nonostante abbia bussato sei volte invano alla porta dell'Oscar. Ma con «La grande guerra» ha vinto il Leone d'oro nel 1959 e Venezia gliene ha consegnato un secondo, alla carriera, nel 1991.
Insieme a Dino Risi e Luigi Comencini è il maestro indiscusso della commedia all'italiana, ma rispetto ai colleghi il suo cinema dimostra una maggiore libertà espressiva e una precisione nella critica sociale che ne ha fatto un osservatore implacabile di vizi e virtù del Belpaese. Con i suoi film si potrebbe disegnare un profilo dei momenti salienti della nostra storia, dalla grettezza papalina del primo '800 ("Il marchese del Grillo") alle lotte operaie di fine secolo ("I compagni"), dalla prima guerra mondiale ("La grande guerra") alla povertà del dopoguerra ("Totò cerca casa» o «Guardie e ladri"), dalla guerra d'Africa ("Le rose del deserto") ai tentativi di golpe degli anni '60 ("Vogliamo i colonnelli"), fino alla rivoluzione sessuale degli anni '60 ("La ragazza con la pistola"), agli anni di piombo ("Un borghese piccolo piccolo") e al femminismo ("Speriamo che sia femmina").
Ma oltre al successo del Leone d'oro la sua fortuna critica è legata a ben tre memorabili saghe da lui avviate: «I soliti ignoti», «L'armata Brancaleone», «Amici miei»: tre grandi affreschi in cui il suo ironico, dissacrante, vitale approccio ai personaggi e agli sfondi sociali diventa stile e unicità dello sguardo.
Nonostante un disincantato scetticismo ostentato in pubblico, è stato sempre in prima linea nella difesa delle idee in cui credeva: socialista fino all'avvento di Bettino Craxi, vicino a Rifondazione Comunista negli ultimi anni, militante convinto nelle battaglie associative per i diritti degli autori. «Quello che in Italia non c'è mai stato – sintetizzava – , è una bella botta, una bella rivoluzione... c'è stata in Inghilterra, c'è stata in Francia, c'è stata in Russia, c'è stata in Germania. Dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, sono 300 anni che è schiavo di tutti».
È questa passione che riversava a getto continuo e che stemperava nel piacere della battuta a mancarci terribilmente oggi. Sul lavoro era un dittatore puntiglioso come amava raccontare uno dei suoi primi allievi, Gillo Pontecorvo, ma dotato di una generosità nel crescere talenti giovani come nel caso di Paolo Virzì che aveva designato come suo erede morale. Dal 2009 il festival di Bari gli ha intestato il premio per il miglior regista e, nel decennale della morte, gli ha dedicato un appassionato omaggio.
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