Tribunale federale Condanna definitiva per Erwin Sperisen

ATS

28.11.2019 - 16:09

L'ex capo della polizia nazionale civile guatemalteca Erwin Sperisen.
L'ex capo della polizia nazionale civile guatemalteca Erwin Sperisen.
Source: KEYSTONE/PETER KLAUNZER

È definitiva la condanna a 15 anni di reclusione per Erwin Sperisen. Il Tribunale federale (TF) ha respinto il ricorso dell'ex capo della polizia nazionale civile del Guatemala, riconoscendolo colpevole di complicità nell'assassinio di sette detenuti nel 2006.

Nella sentenza la corte losannese conferma sui principali punti il verdetto emesso nell'aprile 2018 in secondo grado dalla giustizia ginevrina. Tuttavia, quest'ultima dovrà risarcire il ricorrente in ragione del suo proscioglimento relativo alla morte di altri tre carcerati.

Stando al TF, la motivazione della Camera penale d'appello e di revisione di Ginevra è sufficiente. Gli avvocati di Sperisen hanno già reagito annunciando la loro intenzione di portare il caso fino alla Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) di Strasburgo.

In un comunicato, i legali parlano di una sentenza «incomprensibile», anche perché il loro assistito è condannato in quanto complice di un imputato assolto in Austria. Inoltre, a loro dire, il diritto di Sperisen a godere di un processo equo è stato ripetutamente calpestato.

La vicenda

Erwin Sperisen, cittadino svizzero e guatemalteco nato il 27 giugno 1970, ha diretto la polizia nazionale civile del Paese centroamericano tra il luglio 2004 e il marzo 2007, anno in cui si è rifugiato con la famiglia a Ginevra, prima di essere arrestato nel 2012 a seguito delle accuse mosse nei suoi confronti da varie associazioni.

Tenendo conto del ruolo che ricopriva e della sua presenza sul posto, secondo il TF l'uomo, soprannominato «il Vichingo» a causa della sua imponente statura e della folta barba rossa, non poteva ignorare i dettagli dell'operazione «Pavo Real», che aveva come obiettivo riprendere il controllo del penitenziario di Pavon dove, il 25 settembre 2006, era scoppiata una rivolta. Nel corso di un intervento pianificato effettuato da un commando composto da stretti collaboratori di Sperisen e guidato da Javier Figueroa, suo amico d'infanzia e braccio destro, sette reclusi, considerati come leader dell'ammutinamento, erano stati uccisi.

Mon Repos ha giudicato consona anche la pena di 15 anni di prigione stabilita dal grado precedente. La sanzione non è stata ritenuta eccessiva a causa delle circostanze, ovvero il numero di persone assassinate e il loro status di galeotti.

Cinque anni di ricorsi e sentenze

Inizialmente, come richiesto dall'atto di accusa del Ministero pubblico cantonale del gennaio 2014, oltre che per i sette omicidi di Pavon Sperisen era stato giudicato colpevole per il suo presunto coinvolgimento nell'esecuzione di tre fuggitivi dopo un'evasione di massa dal carcere di «El Infiernito». Nel giugno dello stesso anno era quindi stato condannato all'ergastolo dal Tribunale criminale di Ginevra, sentenza confermata nel maggio successivo in secondo grado.

Nel giugno 2017 però il TF aveva parzialmente accolto il ricorso dell'imputato, in quanto esso non sarebbe stato confrontato a testimoni chiave e sarebbe stato violato il suo diritto ad esser ascoltato. L'incarto era così tornato alla Camera penale d'appello e di revisione ginevrina che gli ha inflitto 15 anni da passare dietro le sbarre, ma scagionandolo dai fatti di «El Infiernito».

I giudici hanno anche escluso la coattività del diretto interessato, ritenendolo «solo» complice delle esecuzioni. Stando alla corte, Sperisen ha sostenuto il commando protagonista della strage garantendogli l'impunità, oltre ad aver coperto con la sua autorità l'operazione e permesso il suo svolgimento.

Sperisen ha trascorso cinque anni in detenzione preventiva fino all'autunno 2017, quando è stato posto agli arresti domiciliari con l'obbligo di indossare un braccialetto elettronico. L'uomo ha scritto qualche settimana fa alla presidente del Consiglio nazionale Marina Carobbio (PS/TI) per sollecitare il Parlamento a far avanzare il suo caso e denunciare la lentezza della giustizia, che ha definito nella lettera «intollerabile».

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