Scandalo Partygate Johnson sulla graticola, ma insiste: «Non mi dimetto»

SDA

26.1.2022 - 21:45

Il premier britannico Boris Johnson
Il premier britannico Boris Johnson
KEYSTONE/AP/Hollie Adams

Si fa avanti il giorno del giudizio per Boris Johnson, messo all'angolo dal cosiddetto scandalo del Partygate sulle «feste» organizzate a Downing Street a dispetto delle restrizioni Covid del 2020-2021, e tuttavia convinto ancora di poter resistere allo spettro delle dimissioni. 

26.1.2022 - 21:45

Un giudizio che si profila pesante nelle pagine del rapporto dell'inchiesta indipendente che il medesimo governo britannico è stato costretto ad affidare sulla vicenda a Sue Gray, irreprensibile civil servant incaricata di vigilare sulla condotta etica ministeriale.

Il rapporto Gray – cui da ieri si è sommata un'imbarazzante investigazione parallela di polizia avviata da Scotland Yard per valutare persino ipotetiche ricadute penali, con tanto d'interrogatorio annunciato al primo ministro Tory in persona – è planato in queste ore sul tavolo di BoJo, al quale spetta decidere in che formato renderlo pubblico al Parlamento e al Paese.

Ma la richiesta ultimativa del leader dell'opposizione laburista Keir Starmer di sdoganarlo in versione integrale non può essere ignorata. In un contesto nel quale emergono come minimo elementi di dubbio diretti sul comportamento del capo del governo e sulla coerenza delle giustificazioni o dei tentativi di questi mesi di ridimensionare l'accaduto; oltre all'evidenza delle violazioni delle regole da parte di alcuni fra i collaboratori più stretti del suo staff.

Elementi destinati a essere riflessi in modo relativamente più sfumato nelle conclusioni sintetiche del documento, ma corroborati da foto e materiale di prova in grado di far infuriare ancor di più il Regno negli allegati che il Labour vuol vedere diffusi in toto.

A cominciare dall'immagine già trapelata di un Boris mostrato di fronte a un panorama di bottiglie vuote in uno dei vari eventi «incriminati» fra bicchierate e auguri di compleanno: un incontro «di lavoro», nelle versione johnsoniana, svoltosi a metà maggio 2020 in pieno lockdown.

Aumentano le richieste di dimissioni

Suggestioni che bastano e avanzano alle opposizioni per alzare ancor di più la voce sulle dimissioni. E minacciano d'ingrossare le file della rivolta pure nella maggioranza conservatrice, l'unica in grado davvero di costringere BoJo alla resa o di dargli il benservito.

A suggellare il clima rovente, ancor prima dell'uscita formale del rapporto Gray prevista entro domani, è stata la tradizionale Ora delle domande del mercoledì alla Camera dei Comuni dove Starmer ha rinfacciato apertis verbis al primo ministro di aver «mentito» in Parlamento negando «i party».

Sir Keir, legale di formazione ed ex procuratore della Corona, si è esibito in una sorta di requisitoria accusando Johnson di «danneggiare il Paese», tanto più alla luce dei «potenziali reati» indagati ora anche da Scotland Yard, e di non essere ormai più «in condizioni di governare» in un momento di crisi interna e internazionale.

E denunciando «la complicità» di quei ministri e compagni di partito che dovessero continuare a tacere. Parole alle quali BoJo – investito adesso anche dalla contestazione di aver «autorizzato» in barba alle smentite un'evacuazione dall'Afghanistan di cani e gatti cari alla sensibilità animalista della first lady Carrie, nei giorni della convulsa fuga dai Talebani – ha risposto ritirando fuori le unghie dopo settimane di balbettii contriti o mezze dichiarazioni di scuse.

Johnson prova a spostare il dibattito sulle «vere priorità»

Replicando a più riprese di non avere alcuna intenzione di farsi da parte. Non senza provare a spostare il dibattito sulle «vere priorità» dell'isola, sui meriti rivendicati alla sua compagine di aver realizzato una campagna vaccinale da primato, riportato il Pil a crescere a un passo di record «nel G7» e l'occupazione sopra il livello pre pandemia.

Fino a spingersi a imputare all'opposizione laburista d'indebolire la nazione mentre la Russia minaccerebbe di «invadere l'Ucraina» in sfida all'Occidente e a bollare Starmer come «un avvocato, non un leader».

Autodifesa utile a rincuorare forse in aula lo zoccolo duro del gruppo Tory e valergli qualche ora di tregua dal fuoco amico. Ma in una prospettiva in cui un voto di sfiducia alla sua leadership di partito – tra inchieste, stillicidio di rivelazioni e sondaggi deprimenti – resta probabilmente solo questione di tempo.

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