Incontro tra autocrati: i presidenti di Turchia e Russia Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e Vladimir Putin non sono particolarmente attenti alla separazione dei poteri nei loro Paesi.
Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato di essere un autocrate reprimendo le proteste antigovernative ad Istanbul nel 2013, come spiega la politologa Anna Lührmann dell’istituto di ricerca V-Dem di Göteborg, in Svezia.
V-Dem pubblica ogni anno un rapporto sulla situazione politica nel mondo. Questa illustrazione mostra il livello di libertà del sistema politico in ciascun Paese. Più il colore è scuro, più il Paese è considerato democratico.
Secondo le conclusioni dei ricercatori, nel 2018 si è riscontrata una tendenza mondiale verso l’autocrazia, che di recente ha cominciato a coinvolgere anche le democrazie consolidate. Ciò porta i cittadini, spinti da una rabbia crescente, a scendere in piazza, come in questo caso a Londra.
In effetti, il premier britannico Boris Johnson punta con decisione ad un indebolimento del Parlamento, al fine di imporre l’uscita dall’Unione europea, scelta a suo avviso giusta.
Altro contesto, stesso fenomeno: anche a Hong Kong la popolazione lotta contro il governo. Le proteste di massa sono sulle prime pagine dei giornali ormai da mesi.
I ricercatori di V-Dem evidenziano anche alcuni segnali di tendenza all’autocrazia negli Stati Uniti. Tuttavia - precisano - grazie alla solidità del sistema, il presidente Donald Trump non ha modo di fare tutto di testa propria, malgrado la sua sete di potere.
Il lato positivo della natura polarizzante di Donald Trump è legato al fatto che essa dà luogo ad una politicizzazione crescente della società, spiega la ricercatrice Anna Lührmann.
La democrazia è in crisi?
Incontro tra autocrati: i presidenti di Turchia e Russia Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e Vladimir Putin non sono particolarmente attenti alla separazione dei poteri nei loro Paesi.
Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato di essere un autocrate reprimendo le proteste antigovernative ad Istanbul nel 2013, come spiega la politologa Anna Lührmann dell’istituto di ricerca V-Dem di Göteborg, in Svezia.
V-Dem pubblica ogni anno un rapporto sulla situazione politica nel mondo. Questa illustrazione mostra il livello di libertà del sistema politico in ciascun Paese. Più il colore è scuro, più il Paese è considerato democratico.
Secondo le conclusioni dei ricercatori, nel 2018 si è riscontrata una tendenza mondiale verso l’autocrazia, che di recente ha cominciato a coinvolgere anche le democrazie consolidate. Ciò porta i cittadini, spinti da una rabbia crescente, a scendere in piazza, come in questo caso a Londra.
In effetti, il premier britannico Boris Johnson punta con decisione ad un indebolimento del Parlamento, al fine di imporre l’uscita dall’Unione europea, scelta a suo avviso giusta.
Altro contesto, stesso fenomeno: anche a Hong Kong la popolazione lotta contro il governo. Le proteste di massa sono sulle prime pagine dei giornali ormai da mesi.
I ricercatori di V-Dem evidenziano anche alcuni segnali di tendenza all’autocrazia negli Stati Uniti. Tuttavia - precisano - grazie alla solidità del sistema, il presidente Donald Trump non ha modo di fare tutto di testa propria, malgrado la sua sete di potere.
Il lato positivo della natura polarizzante di Donald Trump è legato al fatto che essa dà luogo ad una politicizzazione crescente della società, spiega la ricercatrice Anna Lührmann.
I valori fondamentali della democrazia sono sempre più a rischio per colpa di dirigenti politici come Donald Trump, Recep Tayyip Erdoğan e Boris Johnson, il che spinge i cittadini a scendere in piazza per manifestare. La democrazia è in crisi? «Bluewin» ha intervistato un’esperta.
La storia della democrazia risale forse alla Grecia antica e di certo non è terminata. Si potrebbe tuttavia convenire sul fatto che, oggi, ne stiamo vivendo un capitolo particolare: crolli dei sistemi democratici si manifestano in un numero di Paesi inedito dall’inizio dell’era industriale. Ad indicarlo sono i dati dell’istituto di ricerca V-Dem dell’università di Göteborg, in Svezia.
Gli esperti che vi lavorano si occupano di analizzare l’evoluzione della situazione politica mondiale dal 1900 ad oggi. Nel loro rapporto annuale per il 2018, indicano che in 24 nazioni - tra le quali «pesi massimi» come gli Stati Uniti, l’India e il Brasile - alcune forze politiche sono attualmente impegnate nel tentativo di indebolire la democrazia.
Non sorprende perciò il fatto che, in diversi luoghi, molte persone scendano in piazza per protestare, chiedendo di avere maggiore voce in capitolo. Da Mosca, a Hong Kong, fino a Londra, i cittadini si oppongono al fatto che i governi abbiano intenzione di assumere (o abbiano già assunto) decisioni alle loro spalle.
E in Svizzera? Lo scorso anno il tasso di partecipazione medio degli elettori in occasione delle votazioni federali è stato del 43,7%. Il che significa che più della metà dell’elettorato ha dimostrato di «non avere voglia» di far sentire la propria voce, come direbbe il presidente della Confederazione Ueli Maurer. Il mondo alla rovescia?
Numerosi cittadini europei hanno forse dimenticato come apprezzare la «magia» della democrazia, afferma Anna Lührmann, vice-direttrice dell’istituto V-Dem. Il fatto che la democratizzazione abbia portato la pace tra le nazioni è certamente un fatto ampiamente riconosciuto, aggiunge la politologa tedesca nel corso dell’intervista rilasciata a «Bluewin». Tuttavia - ammette - le persone dimenticano facilmente che ciò si applica anche «all’interno» di uno Stato: «Un cambiamento al potere deve poter essere effettuato in modo pacifico. Un gruppo cede il timone ad un altro senza violenza. Il che è, in realtà, qualcosa di miracoloso».
Anna Lührmann
La politologa Anna Lührmann è vicedirettrice dell'Istituto di ricerca V-Dem dell'Università di Göteborg. Dal 2002 al 2009, ha fatto parte del Bundestag tedesco come rappresentante dei Verdi.
Foto: Gothenburg University
Eppure, a livello mondiale, la bilancia pende nella direzione opposta: i ricercatori svedesi parlano di «una terza ondata verso l’autocrazia», ovvero di un processo nel quale diritti fondamentali come le elezioni libere, la libertà di stampa e la separazione dei poteri vengono ridimensionati, mentre il potere della classe dominante cresce.
Cosa preoccupante, per la prima volta dal 1978 sono di più i Paesi in cui la democrazia si indebolisce rispetto a quelli in cui si rafforza. E, sempre per la prima volta, tale fenomeno riguarda anche nazioni che si sono dotate di strutture democratiche solide.
Signora Lührmann, stiamo vivendo la fine della democrazia?
Non userei toni così drammatici. Ciò che viviamo, è un periodo di erosione della democrazia. E in certi Paesi si può parlare già di fine della democrazia: in Turchia e in Russia, ad esempio. In questi due Stati, le elezioni non sono più libere ed eque. È chiaro fin dall’inizio che sarà il governo a vincere. In altre nazioni colpite da tendenze autocratiche, diversi attori - in particolare i governi - tentano in modo evidente di compromettere la democrazia, anche se all’istituto V-Dem li consideriamo ancora come sistemi democratici.
La tendenza generale mostra però che le forze antidemocratiche prendono il sopravvento. Ciò la preoccupa?
Assolutamente. È particolarmente allarmante poiché in molti Paesi si stanno instaurando dei circoli viziosi. Negli Stati Uniti, ad esempio, assistiamo ad una polarizzazione radicale della società, ad una divisione in campi ostili l’un l’altro. Sarà molto difficile invertire tale processo. È per questo che sono preoccupata.
Secondo le sue ricerche, un processo autocratico difficilmente può essere arrestato, una volta che è stato avviato.
Esattamente. Anche se va detto che i processi autocratici che abbiamo potuto esaminare in passato si sono prodotti in Paesi nei quali la fase democratica è stata breve. Ciò che invece constatiamo oggi è che anche le democrazie forti sono coinvolte. Ciò può voler dire che un’inversione è possibile. Anche se si possono citare degli esempi come quello della Repubblica Ceca, nella quale sono state organizzate proteste di massa contro il capo del governo populista. Il che mi rende ottimista, perché significa che gran parte della popolazione resta attaccata alla democrazia e scende in piazza per difenderla. Oppure, prendiamo l'esempio della Gran Bretagna...
… nella quale il primo ministro Boris Johnson ha esautorato il Parlamento.
Esatto, molte persone sono scese spontaneamente in piazza.
Quali sono i fattori che fanno scivolare una democrazia verso l’autocrazia?
Si possono osservare tre elementi. In primo luogo, c’è generalmente una qualche forma di crisi. Essa può essere economica o culturale, come in Polonia, dove alcune regioni dai valori piuttosto conservatori non si sentono prese in considerazione dalle élite. Ciò dà luogo al secondo elemento, ovvero l’emergere di nuovi attori che ne approfittano e ottengono consenso. Come nel caso di Donald Trump negli Stati Uniti. E infine, se questo personaggio politico riesce a prendere il potere, deve tentare di minare le istituzioni.
Trump ci sta riuscendo?
Possiamo dire che le istituzioni statunitensi riescono a tenere testa a Trump. I tribunali, il Parlamento, i media, la società civile: tutti questi attori contribuiscono ad impedirgli di fare solo di testa propria. Così, il processo autocratico non procede tanto velocemente come nel caso della Russia.
In Ungheria e Polonia, però, esso è già più avanzato.
Ma ciò è dovuto al fatto che questi Paesi sono partiti da livelli più bassi. Se si osservano le democrazie di Ungheria e Polonia nel momento in cui il Fidesz e il PiS sono arrivati al potere, si nota che entrambe le nazioni erano un po’ meno avanzate rispetto agli Stati Uniti. E hanno anche una storia democratica più breve. Ciò ha certamente un impatto sulla solidità delle istituzioni.
Qualche anno fa, anche nel mondo arabo i cittadini sono scesi in piazza per reclamare maggiore partecipazione. Cosa è rimasto della «primavera araba»?
La Tunisia, ad esempio, oggi è una democrazia, anche se deve fronteggiare ancora dei problemi. È un processo appassionante da osservare. E, in altri Paesi, i cittadini sanno che tentare di porre un freno ai governi può dare i propri frutti. Anche se ciò non si realizza al primo tentativo, rimane comunque un ricordo storico impresso nello spirito della popolazione.
Come dobbiamo intendere questo ricordo storico?
Il Sudan rappresenta un buon esempio. Nella storia del Paese sono state organizzate per tre volte delle proteste di massa: al termine di ciascuna di esse, le dittature militari sono state rovesciate, sebbene le cose non abbiano mai funzionato bene con un governo democratico. Quest’anno, però, ci sono state nuove grandi proteste, che sono durate parecchi mesi. I cittadini si sono detti: «Anche noi possiamo fare ciò che hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni». È questo che intendo parlando di ricordo storico ed è qualcosa di molto importante.
È per questo che sconsiglio di optare per un approccio fatalista. Se il tentativo non ha funzionato una prima volta, ci si può comunque basare su ciò che si è ottenuto in altre occasioni. La democratizzazione non è un processo lineare. In Germania, ad esempio, si potrebbe prendere in considerazione l’esperienza della repubblica di Weimar, nel corso della quale si tentava di introdurre la democrazia. Dagli errori del passato si può imparare.
In Europa, le correnti populiste hanno in questo momento il vento in poppa. Il nostro sistema democratico è malato?
Non credo. Date un’occhiata ai temi attorno ai quali i populisti mobilitano i loro sostenitori: si tratta innanzitutto della xenofobia e della resistenza alle modernizzazioni culturali, come nel caso delle aperture agli omosessuali o dell’aumento delle pari opportunità tra uomini e donne. Il successo dei populisti è fortemente legato a tali questioni, anche se ovviamente si pongono anche come oppositori del sistema politico. Ma la riflessione che occorrerebbe certamente affrontare in Europa è piuttosto in merito a come permettere ad un numero più ampio di persone di partecipare al processo politico.
La democrazia diretta come quella Svizzera può rappresentare un metodo appropriato?
Sì, ad esempio. Tuttavia, anche la Svizzera ha avuto a che fare con i populisti: non so quindi se il voto popolare sia una panacea. Penso più a dei partiti più moderni, che rendano la partecipazione più interessante per i cittadini. Penso anche ad un più grande coinvolgimento delle popolazioni a livello locale e al fatto che i responsabili politici debbano parlare un’altra lingua. Devono smetterla di parlare senza dire nulla. Perché parlare come fa la gente per strada è qualcosa che i populisti sanno fare meglio.
In quanto europei, siamo anche in qualche modo annoiati dalla democrazia?
La democrazia è data per scontata. È come in un matrimonio di vecchia data: il partner è dato per scontato e, quando scompare improvvisamente, la sorpresa è grande. Con la democrazia la questione è del tutto simile: come nel caso dei matrimoni, occorre prendersene cura.
Vladimir Putin, dal Kgb al Cremlino l'ascesa dello «zar» di Mosca
Vladimir Putin, dal Kgb al Cremlino l'ascesa dello «zar» di Mosca
Il 18 marzo 2018, Vladimir Putin è stato rieletto alla guida della Russia. Sarà presidente per altri sei anni, fino al 2024. Quando avrà terminato il proprio mandato, avrà trascorso un quarto di secolo al potere.
Il suo primo incarico governativo al Cremlino risale infatti al 1999, quando divenne primo ministro. Il 23 marzo del 2000 fu eletto presidente per la prima volta.
La legge russa, tuttavia, non permette alla stessa persona di candidarsi a più di due mandati consecutivi alla testa della nazione euro-asiatica. Per questo, nel 2008 Putin dovette lasciare la poltrona ad un uomo fidato, Dmitri Medvedev. Nel frattempo, però, quest'ultimo lo nominò primo ministro. Giusto il tempo di arrivare al 2012, quando lo «zar» russo si ricandidò e fu nuovamente eletto presidente.
Vladimir Putin è nato il 7 ottobre 1952 a San Pietroburgo, all'epoca Leningrado. I genitori, Spiridonovitch Putin e Maria Ivanovna Putina, avevano origini modeste: il padre era stato militare dell'Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale. Poi, assieme alla madre, era stato assunto presso la fabbrica ferroviaria della città.
La carriera di Putin non comincia però nella politica. A soli 16 anni tenta per la prima volta di farsi assumere dal Kgb, i servizi segreti dell'Unione Sovietica. Non ci riusce subito, ma alla fine entra nel controspionaggio. Per anni è inviato in Germania dell'Est, dove rimane fino al crollo del Muro di Berlino.
Torna nella sua città Natale, all'epoca Leningrado (oggi San Pietroburgo), nel 1990, con il grado di tenente-colonnello. È a questo punto che Putin decide il suo salto in politica, a fianco dell'allora sindaco Anatoli Sobchak, di cui diventa assistente.
Successivamete, nel 1996, entra per la prima volta al Cremlino. Non dalla porta principale ma come semplice collaboratore.
Tuttavia, la carriera all'ombra dell'allora presidente Boris Eltsin è folgorante: già nel 1998 viene nominato direttore dell'FSB, i nuovi servizi segreti della Russia post-sovietica.
L'ultima campagna elettorale per Putin è stata un successo. È stato eletto con il 76% dei voti e con un'affluenza alle urne di oltre il 67%.
Il secondo classificato, Pavel Grudinin, presentatosi con il Partito comunista, è risultato anni luce indietro, con l'11% circa dei voti.
In questa foto è con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con il quale sin dall'inizio non è corso buon sangue. I due leader sono distanti soprattutto sulla questione della Siria, con Putin al fianco del presidente Bashar al-Assad e Trump, invece, decisamente avverso al potere di Damasco.
Putin è ritratto qui con il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan. All'inizio di aprile, è stato organizzato un incontro trilaterale, che ha compreso anche l'Iran. Al centro delle discussioni ancora una volta il conflitto siriano.
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump
Prima di diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha trascorso la vita occupandosi dei suoi fruttuosi affari e diventando anche un celebre personaggio televisivo. Nato nel quartiere Queens di New York il 14 giugno 1946, è figlio di un padre di origini tedesche e di una madre con ascendenti scozzesi.
Ha sposato nel 1977 Ivana Zelnickova, atleta e modella cecoslovacca. Da lei avrà tre figli: Donald Junior, Ivanka e Eric. Il divorzio arriva nel 1992. Un anno dopo Donald Trump si presenta per la seconda volta all’altare: al suo fianco l’attrice Marla Maples. Dalla loro unione nascerà Tiffany. La coppia divorzia nel 1999. Risalgono al 2005 le terze nozze, con Melania Knauss (nella foto), modella di origini slovene, che un anno dopo partorirà Barron.
Trump comincia molto giovane a lavorare nell’impresa del padre, nel settore immobiliare. All’inizio degli anni Settanta, prende in mano l’azienda: nel 1978 centra il primo grande affare, con l’acquisto del Commodore Hotel a New York, che ristruttura grazie ad un prestito.
Sempre nel 1978 ottiene il permesso di costruire la celebre Trump Tower, la torre di 58 piani situata a Midtown. L’immobile sarà inaugurato nel 1983. Tre anni più tardi, Trump restaura la celebre pista di pattinaggio Wollman Rink a Central Park. Nel 1988 acquista per 400 milioni di dollari il Plaza Hotel e lo affida in gestione alla moglie di allora, Ivana.
Nel 1985 Donald Trump compra la residenza di lusso Mar-a-Lago per la somma di 5 milioni di dollari (ai quali se ne aggiungono altri 3 per gli arredi). Essa diventerà la sua residenza invernale. Negli anni Ottanta l’imprenditore si lancia anche nel settore dei casinò, in particolare ad Atlantic City.
La sua Trump Organization gestisce anche numerosi campi da golf, non soltanto negli Stati Uniti. Lui stesso si reca regolarmente in una delle strutture per qualche colpo sul green.
Proprio lo sport, d’altra parte, è stato un altro dei suoi «asset» d’investimento. Nel 1983 ha comprato la squadra di football americano dei Generals di New York. Ha anche organizzato numerosi incontri di pugilato, nonché il Tour de Trump, corsa ciclistica che avrebbe voluto facesse concorrenza al Giro d’Italia e al Tour de France. Il progetto è tuttavia abbandonato dopo la seconda edizione.
Trump è stato anche proprietario di alcuni concorsi di bellezza, come Miss Universo. Ed ha creato nel 1999 un’agenzia per modelle, la Trump Model Management.
Nel 1989 ha anche lanciato la compagnia aerea Trump Shuttle, riservata ad una clientela di lusso, che però non ha avuto grande successo.
Nel 2005 decide di creare un istituto di formazione professionale, chiamato Trump University LLC, proponendo in particolare corsi focalizzati sul settore immobiliare. Ne nasce una lunga controversia legale, con lo Stato di New York che gli intima di ritirare il termine «università» dal nome, in quanto inappropriato. La struttura viene dunque ribattezzata Trump Entrepreneurial Institute. Ma le istituzioni lo citano ugualmente in giudizio e chiedono che al miliardario vengano comminate delle sanzioni. Anche alcuni ex studenti domandano dei risarcimenti. La vicenda si chiude nel 2016, grazie a degli accordi stragiudiziali tra le parti.
Nella classifica stilata da Forbes dei cittadini americani più ricchi, il patrimonio di Donald Trump era valutato nel 1982 a 200 milioni di dollari. Il 26 giugno 2015, in occasione dell’annuncio della propria candidatura alla Casa Bianca, il magnate ha pubblicato un documento nel quale stima il valore del suo impero a oltre 8,7 miliardi di dollari.
In questa immagine, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è in compagnia della figlia Ivanka, anche lei imprenditrice, oltreché modella e personaggio televisivo. Nel 2009 ha sposato Jared Kushner; dall’unione dei due sono nati tre nipoti del miliardario americano: Arabella Rose, Joseph Frederick e Theodore.
Nel 2004 Trump è diventato produttore esecutivo del reality show televisivo The Apprentice, nel quale dei candidati si affrontavano per ottenere un posto da dirigente in una delle società del gruppo. Il programma ha un grande successo negli Usa ed è stato seguito da una sorta di spin-off, chiamato The Celebrity Apprentice. Dagli anni Ottanta, il nome di Trump è anche legato al wrestling, lotta a metà tra lo sport e lo spettacolo particolarmente in voga all’epoca negli Usa e non solo.
Dopo un'aspra campagna elettorale, il 9 novembre 2016 Trump diventa il Presidente eletto. Da quel momento si apre un nuovo capitalo nella vita dell'imprenditore americano.
Donald Trump al seggio elettorale a New York, 8 novembre 2016.
Donald Trump con la moglie Melania al seggio elettorale a New York, 8 novembre 2016.
Donald Trump con la sua famiglia al seggio elettorale a New York, 8 novembre 2016.
Donald Trump con la figlia Ivanka al seggio elettorale a New York, 8 novembre 2016.
Donald Trump al seggio elettorale a New York, 8 novembre 2016.
Donald Trump con la moglie Melania al seggio elettorale a New York, 8 novembre 2016.
Melania Trump e Donald Trump a Wilmington, 5 novembre 2016.
Melania Trump e Donald Trump a Wilmington, 5 novembre 2016.
Tornare alla home page