Dopo il caso Floyd La sofferenza della popolazione di colore in Svizzera

Jennifer Furer

5.6.2020

La morte di George Floyd ha fatto sprofondare gli Stati Uniti nel caos. Anche in Svizzera la popolazione di colore è vittima di razzismo. Banali diverbi possono anche sfociare in violenze da parte della polizia.

«I can’t breathe» («Non riesco a respirare»): sono state queste le ultime parole di George Floyd.

L'afroamericano di 46 anni è morto dopo che Derek Chauvin, agente della polizia di Minneapolis, gli ha premuto un ginocchio sul collo per più di sette minuti, mentre Floyd era ammanettato e sdraiato con il volto schiacciato sull'asfalto.

L'uomo è diventato in breve un simbolo della sofferenza dei neri, vittime di razzismo e di violenze da parte della polizia, e di coloro che invocano aiuto senza essere ascoltati. Negli Stati Uniti, la sua morte ha provocato scontri e sommosse. I manifestanti protestano contro il comportamento della polizia e, più in generale, contro le discriminazioni.

Anche in Svizzera, le persone di colore sono continuamente nel mirino, per ragioni di ordine istituzionale o strutturale da rivedere. Un migliaio di persone hanno manifestato a Zurigo lunedì sera. Il loro slogan è «Black Lives Matter» («La vita dei neri conta»).

Wilson A. afferma di essere stato picchiato e strangolato 

Wilson A.* è triste per non essere potuto andare al corteo. «L’ho saputo troppo tardi», ha spiegato a «Bluewin». Padre di famiglia, nato in Nigeria, ha sporto denuncia contro tre poliziotti, per via di un intervento effettuato il 28 ottobre 2009. Wilson A. rientrava a casa con un collega quando entrambi sono stati fermati da due agenti su un tram per un controllo: uno di loro credeva che Wilson A. fosse un nordafricano ricercato.

L’uomo, che afferma di essere stato riempito di botte e strangolato, ha detto ai poliziotti di soffrire di una malformazione cardiaca. Dopo il controllo, è stato trasportato d’urgenza in ospedale.

Il tribunale ha aperto un’inchiesta contro i poliziotti, ma successivamente l’ha sospesa a più riprese. L’autorità ha anche dovuto avviare dei procedimenti, come deciso dal Tribunale federale dopo un intervento dell’avvocato di Wilson A.

Sentenza emessa 9 anni dopo

Nove anni dopo i fatti, il tribunale del distretto di Zurigo ha prosciolto i tre poliziotti. Secondo il giudice, gli agenti non agirono sulla base di questioni razziali: Wilson A. non sarebbe dunque stato controllato in quanto nero. 

«Si trattava di un controllo effettuato sulla base della foto di un avviso di ricerca», ha dichiarato il giudice. La Corte ha confrontato la foto in questione con il volto del denunciante e ha constatato una «somiglianza» sotto vari aspetti.

La versione della polizia

Secondo la polizia, il querelante non ha menzionato i suoi problemi di salute. Dopo che si è rifiutato di mostrare i documenti, gli hanno chiesto di scendere dal tram. L’uomo li avrebbe quindi aggrediti con estrema violenza costringendoli a difendersi.

Il tribunale, così come il Ministero pubblico, dubita dell'onestà del querelante. Si è detto, invece, convinto della credibilità dei poliziotti, la cui versione corrisponde alle ferite constatate all'epoca sia sugli agenti che sull'uomo.

Per il giudice, il querelante ha fatto sì che il controllo degenerasse. I poliziotti non hanno fatto altro che «adattarsi all'escalation» di violenza. Secondo lui, il loro comportamento è stato adeguato e legale. 

La battaglia non è ancora terminata. L’uomo e il suo avvocato hanno depositato un ricorso.

«Razza di scimmia, torna in Africa!»

Quella vicenda continua a perseguitare Wilson A. Non soltanto perché il procedimento giudiziario è ancora in corso. Ma anche per via delle immagini della morte di George Floyd, che lo hanno sconvolto: «Non sto bene in questo momento», ammette.

Quando vede quel video, ricorda di essersi trovato nella stessa situazione: «“Non riesco a respirare”. Sono esattamente le stesse parole che dissi ai poliziotti. Credevo che fosse tutto finito e che sarei morto».

Dal suo punto di vista, è illusorio pensare che non ci sia razzismo in Svizzera. «È ovunque. I neri lo vivono ogni giorno, che sia da parte della polizia, nella società civile o nel mercato del lavoro», spiega Wilson.

L’influencer bernese Rash Sakem, di origini africane, la pensa allo stesso modo: «Due giorni fa, volevo andare in un bar a fumare narghilé con due colleghi dalla pelle scura», racconta. Ma è stato respinto: «Il buttafuori ci ha detto che non potevamo entrare perché eravamo tutti maschi. Qualche minuto dopo, ha lasciato entrare tre uomini bianchi da soli».

Anche su internet, Rash è continuamente vittima di epiteti razzisti: «Razza di scimmia», «Tornatene in Africa», o ancora «Impara il tedesco». Rash sostiene che il problema del razzismo è onnipresente all'interno della comunità africana. Soltanto alcuni hanno osato renderlo pubblico. «E quando lo facciamo, tutto viene dimenticato nel giro di due mesi». Per Rash è la società a dover essere ripensata: «Le persone devono imparare a vederci come esseri uguali a loro».

Uno studio recente della Commissione federale contro il razzismo (CFR) e dell’associazione humanrights.ch mostra che l'uguaglianza non è una realtà in Svizzera. I 22 centri d’ascolto hanno segnalato 352 casi di discriminazione nel 2019, ovvero il massimo storico. Come negli anni precedenti, le persone di colore sono quelle più colpite. Il numero di casi non segnalati, però, è ben più elevato.

La richiesta di aiuto della popolazione nera

Gina Vega, responsabile dell’unità Discriminazione e razzismo e a capo del progetto della Rete dei centri d’ascolto per le vittime di razzismo di humanrights.ch, spiega che le persone di colore si rivolgono all’associazione per casi di «ordinario» razzismo.

La dirigente spiega che queste persone chiedono incessantemente aiuto dopo essere state vittime di schedature a sfondo razziale. «Spesso i controlli della polizia vengono effettuati unicamente sulla base del colore della pelle», spiega Vega, secondo la quale le vittime lamentano anche casi di aggressività da parte degli agenti, che non spiegano cosa accade e usano frasi discriminatorie. «E in alcuni casi si arriva anche alla violenza».

Quest’ultima può essere talvolta psicologica e si tratta di qualcosa de non sottovalutare, secondo Gina Vega: «Le vittime hanno paura della polizia, evitano i luoghi pubblici dopo ripetuti controlli e non hanno più fiducia nelle istituzioni pubbliche».

Anche Rahel El-Maawi vive il razzismo nel proprio quotidiano. Lavora come animatrice socioculturale ed è cofondatrice di Bla*Sh, rete di donne nere nella Svizzera tedesca. «Il razzismo – spiega – colpisce famiglie intere e si manifesta generalmente in modo diretto e in ogni sorta di contesto. Dalla scuola al lavoro, dalla casa agli spazi pubblici».

«Dobbiamo lavorare attivamente affinché le persone scordino le distinzioni tra i bianchi e gli altri», sostiene la donna, secondo la quale il razzismo dev’essere reso visibile affinché la popolazione venga sensibilizzata.

Secondo Rahel El-Maawi, oltre a denunciare attivamente il razzismo, occorre anche mostrare coraggio civico: «Nel corso di un controllo da parte della polizia, ad esempio, è utile che i passanti si fermino e mostrino alla persona controllata che sono lì per aiutarla». E successivamente – precisa – è importante testimoniare nel caso in cui vengano sporte denunce contro la polizia.

Filmare gli interventi della polizia?

Si può anche considerare l'idea di registrare l’intervento con il telefono cellulare, spiega Rahel El-Maawi. L’organizzazione «Police the Police» consiglia questa procedura. «Tutti coloro che hanno già filmato la polizia nell’esercizio delle sue funzioni lo sanno: gli agenti di polizia cambiano immediatamente atteggiamento!», si può leggere sul sito. La prevenzione può anche passare da istanze indipendenti di ricorso contro le forze dell'ordine: «In effetti, nella situazione attuale, i poliziotti violenti non hanno da temere conseguenze», scrive l’organizzazione in una e-mail indirizzata a «Bluewin».

Secondo Gina Vega, il razzismo è spesso banalizzato: «Non credevo che...» o «Sei troppo sensibile», sono frasi che si sentono spesso. «Questa banalizzazione contribuisce all’assenza di dibattito su quello che è realmente il razzismo e sulle sue radici.»

Bisogna abbandonare il tabù su questo tema, prosegue Gina Vega. Si comincia con una forma sottile di razzismo, nella quale le persone di colore – non necessariamente per cattiveria – si sentono valutate su scala individuale come se non facessero parte della Svizzera, spiega. Intende con questo le battute razziste o anche domande come «Da dove viene?». Neppure un'osservazione come «Lei parla bene il tedesco» va bene, afferma Gina Vega, che sostiene che «ogni proposito o atto razzista dev’essere punito. Anche gli ostacoli giuridici e i costi elevati delle procedure per atti di razzismo dovrebbero essere eliminati.»

Selina Tribbia, responsabile del servizio Migrazione del sindacato Syna, considera dal canto suo che il mondo degli affari ha il dovere di agire. Alcune misure strutturali sono necessarie per integrare meglio le persone di colore nel mercato del lavoro. «Raccomandiamo per esempio l’introduzione di una formula di candidatura standardizzata nella quale non sono menzionati né il nome, né l’età, né il sesso e al quale non deve essere allegata nessuna foto.»

I pregiudizi sui neri, considerati come persone «pigre» che «beneficiano tutte degli aiuti sociali», sono principalmente fondati sul fatto che non riescono a trovare un lavoro per via del colore della loro pelle, sostiene. «Si tratta di un processo a doppio senso. Il razzismo a livello strutturale si manifesta nella percezione individuale e viceversa», afferma Selina Tribbia.

La profilazione razziale in Svizzera

Secondo Alma Wiecken, responsabile della Commissione federale contro il razzismo (CFR), anche la problematica della profilazione razziale è un tema di attualità in Svizzera.

In passato, la CFR ha già preso diverse volte contatto con la Conferenza delle direttrici e direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia per confrontarsi riguardo ai controlli di polizia discriminatori e ad altre questioni.

In maniera isolata, i corpi di polizia hanno reagito alle accuse di profilazione razziale. La polizia municipale di Zurigo ha per esempio definito dei nuovi criteri per i controlli di identità. Gli agenti sono tenuti a comunicare alla persona controllata le ragioni della verifica. Questo tema viene approfondito nel corso della formazione dei poliziotti.

Anche la polizia di Basilea affronta sempre di più il tema all'interno della formazione di base e attraverso dei laboratori. Intervistato dalla SRF, Tarek Naguib, dell’Alleanza contro la profilazione razziale, stima che «è ingenuo pensare che il problema possa essere risolto con un laboratorio». Piuttosto, ipotizza un sistema di ricevute. «Quando un poliziotto stila una ricevuta, deve giustificare il controllo. Ciò genera delle riflessioni importanti.»

Stati Uniti: rivolte in seguito alla morte di George Floyd

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