Cinema Pupi Avati e il film con Edwige Fenech: «Racconto la storia di un fallimento»

Covermedia

28.4.2023 - 16:30

Pupi Avati
Pupi Avati

Si intitola «La quattordicesima domenica del tempo ordinario», il 41esimo lungometraggio dell’iconico regista, in sala dal 4 maggio.

28.4.2023 - 16:30

C’è un fil rouge autobiografico, nel 41esimo cortometraggio del regista Pupi Avati, dal 4 maggio al cinema con «La quattordicesima domenica del tempo ordinario».

Si tratta di un racconto parzialmente autoriferito che riprende la storia d’amore con quella che diventò la donna della sua vita.

«Ci sono molte cose che hanno a che fare con la mia vita, ma non c’è autocompiacimento. Ho 84 anni, so di aver già percorso il grosso della vita, alla nostra età si diventa incontinenti: questo è il mio film più sincero.»

«Confondo vita e cinema»

«Sono eclettico, mi manca solo il western, ma mancavano anche queste confidenze. Ormai sono così disinvolto con il mezzo che finisco per confondere vita e cinema: quando parlo con mia moglie mi chiedo come inquadrarla», spiega Avati presentando la pellicola, il cui titolo necessita un approfondimento.

«(La quattordicesima domenica del tempo ordinario, ndr) È quel periodo dell’anno liturgico in cui non ci sono tempi forti, comprende primavera ed estate. Ci si sposa: io mi sposai il 24 giugno 1964, che è proprio quella che cito nel titolo.».

«È stato il giorno più felice della mia vita, dopo quattro anni di rincorsa dantesca ho conquistato quella che per me era la ragazza più bella di Bologna. Il nostro incontro ha prodotto gioie e dolori rammarico e felicità. Da ciò si desume che parlo molto di me. E in modo tutt’altro che pudico».

«Edwige? La scelta migliore»

La protagonista è Edwige Fenech, che torna davanti alla macchina da presa dopo 7 anni di latitanza.

«Avevo chiuso – spiega l’attrice – ma una proposta come quella di Pupi non la ricevevo da anni. È stato come un miracolo, pensavo fosse un sogno. Adoro i miei film del passato ma questo lo aspettavo da tanto. Una gioia incontenibile».

Per il regista scelta migliore non si poteva fare.

«È stata la donna più bella del suo tempo e mi piaceva che fosse lei la protagonista di una storia ambientata negli anni Settanta e Ottanta. Poteva sembrare una provocazione, ma sono io ad aver dilatato i confini del fare casting in Italia.».

«È lo stesso metodo che ho usato proponendo Renato Pozzetto per «Lei mi parla ancora». Nel nostro cinema si gioca sempre con la stessa rosa, che è molto ristretta. Non si può fare la fila alla porta di Favino, che se lo merita ma non può fare tutto lui. Ci sono tantissimi attori che vogliono lavorare con me: cercano un risarcimento, hanno voglia di dimostrare qualcosa».

«Tutti noi siamo falliti»

La trama del film, spiega Avati, ruota intorno al fallimento personale, argomento che ci tocca tutti da vicino.

«Racconto la storia di un fallimento – spiega Avati – perché, in fondo, tutti noi siamo falliti: il nostro destino non è quello che sognavamo. Se non lo ammetti, non sei corretto. Il film parte a Bologna, da un chiosco di gelati su via Saragozza all’angolo di via Audinot che frequentavo da bambino: oggi non c’è più, ma mi illudo di potermi sedere ancora lì».

Covermedia