Cinema - FIFF Sahra Mani: «6-10 anni per ottenere giustizia in Afghanistan»

sifo, ats

22.3.2022 - 17:23

La regista afghana Sahra Mani, nota per il film «A Thousand Girls Like Me», è membro della giuria della 36esima edizione del Festival International du Film de Fribourg (FIFF). Da anni si batte per i diritti delle donne in Afghanistan; Keystone-ATS l'ha incontrata.

22.3.2022 - 17:23

In «A Thousand Girls Like Me» (2018) la regista segue Khatera, una 23enne afghana, abusata per anni dal padre, dal quale ha avuto due bambini ed è stata costretta ad abortirne diversi altri.

«È stata Khatera stessa a propormi di fare un film che raccontasse la sua storia», spiega Sahra Mani, classe 1982, in un'intervista a Keystone-ATS, «ma non ero sicura che ci fosse abbastanza materiale per un documentario». La regista afghana spiega di aver visto Khatera per la prima volta in televisione, «sono rimasta inorridita e ho deciso di fare qualcosa per aiutarla».

Sistema giudiziario corrotto

Seguendo Khatera per 2 anni e mezzo, Mani si è accorta di quanto la giustizia afghana fosse obsoleta e corrotta, specialmente in caso di abusi subiti da donne. «Ci vogliono dai 6 ai 10 anni per ottenere giustizia in Afghanistan», afferma Mani. Il problema, prosegue la regista «è che a causa della giustizia corrotta nessuno crede ad una donna che viene abusata, considerandola colpevole».

A quel tempo il padre di Khatera è stato condannato alla pena di morte, soprattutto per aver forzato gli aborti, ma «dal ritorno al potere dei Talebani è stato liberato come molti altri criminali», spiega Mani.

«Adesso non c'è alcuna legge, giustizia o controllo, i criminali e terroristi sono liberi e sono un grande pericolo per tutti noi, non soltanto per gli afghani ma anche per gli occidentali», indica la regista riferendosi ai vari attentati terroristici perpetrati anche in Europa.

Essere donna in Afghanistan

A soffrire maggiormente del ritorno dei talebani al potere sono le donne, «che non possono andare a lavorare o a scuola», prosegue Mani, «non possono andare in città senza essere accompagnate da un uomo».

«Molte donne si sono opposte ai talebani, scendendo in strada a manifestare ma sono state violentate, arrestate e addirittura uccise», spiega la regista. Molte donne attiviste sono «confinate nelle loro stesse case perché i talebani hanno sottratto loro i passaporti e quelli della loro famiglia, impedendo loro di fuggire in un altro paese», mette in guardia Mani, sottolineando quanto sia importante spargere la voce su questa «situazione orribile».

La regista auspica un aiuto internazionale per ridare all'Afghanistan e alla sua popolazione una certa normalità e non incappare in un'altra guerra. «Potremmo così tornare a lavorare liberamente, a guardare film tutti insieme, a celebrare la vita e la primavera», dice sorridendo.

Grande impatto sociale

Il documentario di Mani è stato mostrato anche in Afghanistan, dove se ne è parlato molto e dove ha dato il coraggio ad altre vittime di abusi a farsi avanti. La regista cita l'esempio della squadra afghana femminile di calcio le cui giocatrici sono state stuprate dal loro allenatore e ne hanno testimoniato in televisione.

L'allenatore in questione ha ricevuto una multa di un milione di dollari. «Lo scopo del film era proprio quello di mostrare che parlando degli abusi, delle violenze sessuali e dell'incesto si può ottenere giustizia», indica Mani.

«Il film solleva delle domande ma non sempre delle risposte, porgo le domande e cerco di lavorare sulla mentalità delle persone», spiega. «Ovviamente il governo non è stato felice del documentario», aggiunge.

La regista ha fondato la campagna «Stand with women in Afghanistan» per raccogliere fondi per le donne e fornire loro cibo, ma soprattutto per sensibilizzare la comunità internazionale ad accogliere e far uscire dal paese le donne attiviste, bloccate nelle loro case.

Un Paese al collasso

Dal ritorno dei talebani «non c'è più spazio per la cultura», afferma Mani, «i talebani sono contro le donne e gli artisti». «Fanno finta di essere cambiati quando incontrano i giornalisti occidentali, ma noi afghani sappiamo che non cambiano. Hanno arrestato più di 200 donne attiviste, alcune delle quali sono state uccise. Al contempo negano tutto ciò», spiega Mani.

La regista ha rischiato la vita per fare questo film, «per andare da casa al lavoro più di tre volte sono stata confrontata con bombe e attacchi suicidi», dice. «Per me è stato molto difficile trovare finanziamenti per i miei film», prosegue.

Il FIFF, che si tiene fino a domenica, dedica quest'anno una sezione omaggio al cinema afghano, tra questi viene presentato anche «A Thousand Girls Like Me». Al proposito, Mani conferma che Khatera è tuttora in Francia dove ha avuto un bebè con il marito e gli altri due bambini vanno a scuola.

In qualità di membro della giuria del FIFF, Mani, è tenuta a discutere e votare assieme ad altri colleghi alcuni elementi dei vari film quali storytelling e drammaturgia. Dei film in concorso quest'anno dice «sono molto impressionata dalla qualità, sembra che le persone abbiano avuto molto tempo per scrivere una bella sceneggiatura», dice aggiungendo «sarà difficile scegliere».

sifo, ats