GiustiziaMorti di Covid nella casa anziani di Sementina: «Indicibile quanto vissuto»
SwissTxt / pab
23.11.2022
Si è aperto mercoledì il processo per le violazioni delle norme Covid nella casa anziani di Sementina durante la prima ondata. S'è parlato dei pasti in comune e delle attività ricreative di gruppo effettuate nonostante fossero vietate dalle disposizioni federali e cantonali e del mancato tracciamento dei contatti.
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23.11.2022, 19:22
23.11.2022, 19:51
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Ha preso avvio mercoledì mattina il processo della Procura penale contro tre dipendenti, con compiti di responsabilità, accusati di avere, con vari gradi di colpa, favorito il diffondersi del SARS-CoV-2 all'interno della casa di riposo di Sementina, gestita dal Comune di Bellinzona.
Tra il 21 marzo 2020 e il 18 aprile 2020 almeno 39 anziani su un’ottantina si ammalarono e 22 di loro morirono per colpa del Covid. I tre imputati devono rispondere di ripetuta contravvenzione alla Legge federale sulla lotta contro le malattie trasmissibili dell’essere umano.
Si sarebbero, secondo i tre decreti d’accusa distinti, «intenzionalmente e ripetutamente opposti ai provvedimenti presi dalle autorità cantonali», lasciando anche chi aveva sintomi libero di muoversi, pranzare assieme e partecipare ad attività in comune ai piani.
La procuratrice pubblica Pamela Pedretti, affiancata in aula dal procuratore generale Andrea Pagani, chiede una multa di 8'000 franchi nei confronti della 47enne direttrice sanitaria; di 6'000 nei confronti del 58enne direttore del settore anziani della Città e infine di 4'000 nei confronti della 60enne italiana che ricopriva allora la funzione di capostruttura ma che oggi svolge un’altra attività.
La direttrice sanitaria contesta quasi tutto
La direttrice sanitaria (DS) non avrebbe eseguito i provvedimento presi a livello federale e cantonale. Il decreto le contesta, in particolare, la libertà di movimento che all’interno della struttura ha concesso a ospiti con sintomi influenzali e il fatto che alcuni abbiano consumato pasti in comune.
In aula, interrogata dalla giudice Orsetta Bernasconi Matti, ha respinto la tesi d'aver permesso al virus di entrare nella struttura sanitaria e contestato parte della ricostruzione dei singoli casi fatta dalla Procura: «Contesto le accuse perché non sono basate sui fatti e sulla mia attività svolta».
«I rimproveri che mi sono mossi non possono essermi contestati, perché spesso io sono intervenuta solo in seconda battuta. Il primo referente spesso era il medico di famiglia».
«Con 37,4 di febbre non si chiama il medico»
L’imputata ha cercato di ricostruire la complessità dello stato di salute, spesso con sintomi già presenti, di alcuni ospiti citati nei decreti. Ha rivendicato di aver subito tamponato e isolato, quando interpellata, i pazienti.
Hai poi sminuito l’evidenza di taluni sintomi: «Pazienti anziani possono avere disturbi digestivi, e anche vomito, dopo una cena pesante». E sugli stati febbrili: «Con una temperatura di 37,4 gli infermieri non informano il medico. Quando i pazienti hanno manifestato febbre la sera o durante la notte, dal momento che erano già in isolamento, il tampone veniva disposto il giorno seguente», ha spiegato.
Botta e risposta con la procuratrice
Il momento più acceso, riporta la RSI, è stato quando la direttrice sanitaria ha citato più volte il ruolo avuto dai medici nella gestione dei casi.
«È corretto, ha chiesto la procuratrice pubblica Pedretti, che da un determinato periodo i medici di famiglia non avevano più accesso alle case anziani?». «Non mi risulta, ha risposto l’imputata. C’era una deroga per le urgenze concessa dallo Stato Maggiore di condotta».
La procuratrice ha replicato, leggendo un verbale in cui il direttore amministrativo afferma che «la gestione dei pazienti in quel periodo era affidata ai direttori sanitari», essendo di regola vietato l’accesso ai medici di famiglia. Ma la DS ha ribadito: «Al medico di famiglia, contattato per un’urgenza, veniva accordato l’accesso. Ero io ad accordare gli accessi».
La febbre a 37,5 è un'urgenza o no?
Sul tema l’imputata è stata incalzata da procuratore generale Pagani: «Quando c’è un sintomo simil febbrile, per esempio di 37,5, siamo in un’urgenza?». «Adesso sì, prima dell’epoca Covid, ovvero inizio febbraio 2020, no. L’anziano verso sera può fare delle febbriciattole» ha risposto la direttrice sanitaria.
S'è espressa poi la capostruttura, che ha dato alcune precisazioni sulle situazioni in cui il medico non è stato avvisato: «Quando la sintomatologia era riconducibile ad una situazione pregressa, la persona veniva monitorata e solo successivamente veniva avvisato il medico».
«Lei stava fuori, ma faceva entrare i pittori»
L'ultimo a prendere la parola è stato il direttore del settore anziani della Città di Bellinzona. Sono state tematizzate in particolare le direttive: «Fino al 23 marzo ho fatto in presenza consegne settimanali alle singole quattro strutture. Mi assicuravo con le capostrutture che le prime misure, come il divieto di accesso dei famigliari, venissero rispettate e applicate uniformemente. Per me era importante una condivisione delle direttive. Non mi recavo giustamente nei reparti visto che c’era il divieto d’accesso».
Una precisazione che ha fatto sussultare la giudice: «Lei non girava nei reparti, ma faceva entrare i pittori».
Pasti in comune, «le distanze c'erano»
È stato affrontato poi il tema dei pranzi consumati nella sala in comune prima, e poi nelle salette ai piani.
«Il 5 marzo l’Ufficio federale della sanità pubblica parla per la prima volta di distanziamento, ma senza quantificarlo. Neppure l’Ufficio del medico cantonale (UMC) aveva quantificato la distanza. Abbiamo verificato che i residenti non avessero avvicinamenti inadeguati. Erano già posizionati a scacchiera al tavolo. Il distanziamento c’era», ha spiegato in aula il direttore del settore anziani della Città.
Attività in comune sospese perché non c'era l'animatrice
In aula si è discusso anche dell’attività d’animazione ai piani, altro punto contestato nel decreto. E il direttore del settore anziani ha spiegato: «Le attività di animazione erano ridotte ai piani per essere controllate. Riteniamo di non aver contravvenuto alle disposizioni dell’Ufficio del medico cantonale. Volevamo permettere al residente di vivere la giornata. Prima del Covid le nostre case erano luoghi di vita».
Le attività vennero sospese dal 6 al 16 marzo «per mancanza dell’animatrice». E poi sono riprese.
«Erano attività sociosanitarie, non socializzanti»
«Confermo che è stata una decisione condivisa», ha detto la direttrice sanitaria. «Per attività socializzanti ho sempre inteso attività con la partecipazione di persone esterne, come parenti o la banda musicale», ha aggiunto.
«Preciso che l’animatrice è una dipendente della struttura e non una persona esterna. Sono state infine sospese su richiesta dell’UMC per il numero elevato dei contagi nella struttura».
A quel punto, ha precisato il direttore amministrativo, avremmo comunque preso anche da soli questa decisione: «Per noi comunque non erano attività socializzanti, ma sociosanitarie».
La tombola non è socializzante?
Ma la tombola sarebbe un’attività sociosanitaria?, ha chiesto la giudice. La capostruttura ha risposto che «era un’attività che piaceva molto ai residenti e ci si è organizzati per proporla loro in sicurezza. Ognuno aveva la propria cartella e il proprio pennarello che poi veniva disinfettato. Nei piani abbiamo portato solo attività specifiche che permettessero ai residenti di venire stimolati e occupati durante i giorni di confinamento».
Le misure da prendere per svolgere le attività sono state discusse anche con l’animatrice, ha detto la caporeparto: «Doveva esserci la meno interazione possibile tra i residenti con una prevalenza di attività passive di stimolo cognitivo. Le era stato detto che doveva mantenere le distanze e anche lei, come dipendente interna, aveva accesso alle direttive come pure alla cartellonistica».
«È stato un mio scrupolo proporre attività nelle quali i residenti non dovessero interagire tra di loro» aveva tuttavia dichiarato a verbale l’animatrice, come ricordato dalla giudice.
La caporeparto ha contestato: «Le attività non le ha decise l’animatrice». La continuazione delle attività «è stata condivisa anche da me», ha detto la direttrice sanitaria. «Era una buona azione per i residenti che non avevano più una giornata strutturata. Ma non ho avuto voce in capitolo su quali attività proporre», ha aggiunto.
«A quel momento non sapevo in cosa consistevano le attività», ha precisato in aula il direttore del settore anziani.
Direttive poco chiare?
Il conflitto apparente sarebbe sorto tra le direttive. In un'interna del 6 marzo 2020, il settore anziani della Città diceva che tutte le attività dovevano svolgersi nei reparti e non più negli spazi comuni. Agli atti, c’è però un’altra direttiva sempre del 6 marzo, dove si affermava che tutte le attività di gruppo erano sospese.
Norme inconciliabili? «Ai famigliari venivano dati i principi, ma poi all’interno della struttura ai collaboratori veniva data una direttiva più specifica», ha spiegato il direttore del settore anziani.
Tracciamento dei contatti inesistente
Il mancato tracciamento dei contatti è un'altro punto contenuto negli atti d'accusa, che viene contestato dagli imputati. «Dal 27 febbraio tutti i collaboratori portavano però la mascherina. C’erano tre condizioni menzionate per disporre la lista dei tracciamenti» ha detto sempre il direttore.
L’assenza di protezione facciale era uno dei tre requisiti di contatto significativi per avviare il tracciamento. La direttrice sanitaria: «In prima battuta si è cercato di valutare che c’era un’ottima igienizzazione delle mani e tutti portavano la mascherina. Un minimo di tracciamento, nei primi giorni, sui contatti avuti dai dipendenti positivi c’è stato».
«Quando però c’è stata l’evoluzione negativa, il personale era occupato in altre faccende più urgenti e non siamo più riusciti».
«Quello che abbiamo vissuto e visto in quelle tre settimane è quasi indicibile» ha detto con la voce rotta dall’emozione la direttrice sanitaria, sul finale della giornata.